Corriere della Sera, 21 febbraio 2018
Il caos tra errori e illusioni
L’inaudita strage siriana che dal 2011 ha fatto mezzo milione di morti e sei milioni di profughi, non si era conclusa nello scorso ottobre con la caduta di Raqqa e la definitiva sconfitta dei tagliagole dell’Isis? A scuotere i troppo distratti e gli inguaribili ottimisti ha pensato ieri Bashar Assad, con la sua abituale ferocia. Su Ghouta Est, un agglomerato di 400 mila anime che è l’ultima roccaforte degli islamisti anti regime nella vicinanza di Damasco, sono piovuti centinaia di razzi, barili esplosivi, colpi di mortaio, cannonate, bombe d’aereo. Secondo stime prudenti i morti civili sono 190, più di 800 i feriti, e come sempre nella mattanza siriana hanno pagato con la vita soprattutto i bambini.
Si pensa che Assad abbia deciso di liquidare la spina nel fianco di Ghouta facendo seguire ai bombardamenti un attacco di terra. L’Onu protesta, il mediatore Staffan de Mistura dice che siamo alla vigilia di una «seconda Aleppo». Ma per quanto gli eventi di Ghouta Est suscitino indignazione e pietà, anche noi abbiamo il dovere di non essere distratti. E dobbiamo capire che la guerra siriana, lungi dal concludersi con la vittoria sull’Isis, si è moltiplicata per sei. In Siria c’è la guerra di Bashar Assad, quella che ieri si è vista a Ghouta Est. Il presidente salvato da Putin vuole finirla con i ribelli, vuole evitare una spartizione del Paese, e soprattutto vuole rimanere al potere.
P er esempio vincendo elezioni-farsa, che metterebbero in imbarazzo gli americani e i loro alleati. Bashar cerca anche di mostrarsi più autonomo da Mosca, ma senza il suo appoggio militare e politico rischierebbe nuovamente di cadere. In Siria c’è la guerra di Erdogan. Le forze turche assediano l’enclave curda di Afrin, e con la mediazione di Putin avrebbero evitato (per ora) uno scontro con reparti siriani mandati da Assad a proteggere i confini. Erdogan teme che i curdi siriani (Ypg) si uniscano ai curdi turchi del Pkk, e vuole «ripulire» una zona di sicurezza profonda 30 chilometri lungo la frontiera. Già, ma a Manbij, che teoricamente dovrebbe essere il prossimo obbiettivo dell’offensiva turca, ci sono gli americani, istruttori e alleati dei curdi. Erdogan dice «andatevene», i militari Usa avvertono «resteremo». E così potrebbe esserci uno scontro armato tra due alleati Nato, il secondo della storia dopo quello tra greci e turchi per Cipro. Chi cederà, Ankara o Washington? Intanto Putin sta alla finestra e se la ride. In Siria c’è la guerra di Putin. Lui ha salvato Assad quando stava per soccombere, lui ha mutato gli equilibri della guerra, lui è stato descritto come l’unico vero vincitore del conflitto, ma ora il capo del Cremlino non sa come uscirne. Ha provato a impostare un «suo» negoziato di pace contando sull’alleanza Russia-Iran-Turchia, ma il tentativo è fallito. Ha inventato le de-escalation zones (Ghouta Est è grottescamente una di queste), e Assad gli ha mandato all’aria il gioco. Gode nel veder e che turchi e americani rischiano di spararsi, ma come potrà rispettare l’annunciato ritiro alla vigilia delle elezioni del 18 marzo prossimo? Lui sa che vincerà, ma sa anche che i russi sono stanchi di guerra, soprattutto dopo che «diverse dozzine» di cittadini russi e ex-sovietici sono stati uccisi da un attacco aereo della coalizione guidata dagli Usa. In Siria c’è la guerra di Trump. Troppo a lungo priva di una strategia, l’America raccoglie oggi i dividendi di uno scarso impegno. Tiene sul terreno i suoi duemila soldati (500 un anno fa) per prevenire un ritorno dell’Isis. E per non ripetere il solito «errore di Obama», che sbagliò davvero ritirandosi troppo bruscamente dall’Iraq. Erdogan è un problema grosso. Ma intanto si può lavorare contro l’Iran, obbiettivo preferito dell’Amministrazione. Bashar viene accusato di aver utilizzato armi chimiche, e dovrà andarsene. Nei negoziati di pace, poi, è meglio non entrare. Ci pensi l’Onu. E ci pensi Putin, se ci riesce. In Siria c’è la guerra dell’Iran. Che con le sue milizie sciite, al pari degli Hezbollah libanesi, ha avuto un gran peso sull’esito della guerra. Ora vuole riscuotere, magari ricevendo investimenti russi e cinesi al posto di quelli occidentali che arrivano con il contagocce. Quel che Teheran teme e cerca di evitare, è uno scontro armato con gli americani. Perché farebbe il loro gioco. In Siria c’è la guerra di Israele. Lo si è visto di recente con l’abbattimento del drone iraniano partito dalla Siria (quello che Netanyahu ha esibito a Monaco) e subito dopo con l’F-16 israeliano colpito dai siriani. Ma i timori di Gerusalemme vanno ben oltre: Iran, Siria, Iraq e Hezbollah formano una mezzaluna sciita potente e aperta sul Mediterraneo. La sicurezza di Israele è minacciata, ma la risposta c’è: l’asse con Trump (e con l’Arabia Saudita) per contenere l’Iran. Se necessario con la forza. Sei guerre esplosive e intrecciate tra loro pesano sui futuri equilibri del Medio Oriente e del mondo. Servono tregue umanitarie da Ghouta a Idlib, servono processi negoziali non concorrenti, servono statisti capaci di concepire strategie di contenimento. Ma essere ottimisti diventa sempre più difficile.