La Stampa, 10 febbraio 2018
DIARIO DI SCRITTURA Enrico Vanzina Quando ho incontrato il mio assassino ho brindato con la vodka
Oscar Wilde si divertiva a ridurre il suo lavoro di scrittore: «Sono stato tutta la mattina per aggiungere una virgola, e nel pomeriggio l’ho tolta». Naturalmente non è così. Scrivere è un lavoro molto complesso. Scrivere è un lungo cammino nel quale si attraversano vari momenti: l’ispirazione, la costruzione della trama, la scelta dei personaggi, la prima stesura, quelle successive. E intorno a queste variabili ne esistono altre che condizionano la scrittura: dove si scrive, quando si scrive, come si scrive.
Per scrivere il romanzoLa sera a Romaho impiegato circa otto anni. L’ho iniziato, l’ho fermato, l’ho ripreso, l’ho abbandonato. Volevo scrivere un giallo. Un giallo divertente. Mi veniva sempre poco giallo e poco divertente. Infine una mattina di circa un anno fa ho avuto l’ illuminazione giusta. Quel libro che mi faceva disperare non doveva essere solo un giallo ma qualcosa di più. Doveva essere un romanzo su Roma, sul Cinema, sul Giornalismo, sul Tempo che passa. A quel punto tutto è diventato molto più facile. La storia in parte esisteva già ma adesso, allargandosi su temi più complessi, lo spessore del racconto poteva essere sostenuto dalla mia visione del mondo. Senza rendermene conto il protagonista è diventato «me». Un po’ me. Quindi sincero, vero, credibile. E intorno a questo «me» ho piazzato personaggi altrettanto veri, con nome e cognome, persone reali che conosco. Il risultato mi è sembrato subito sorprendente. All’interno di un libro di genere sentivo nascere un autentico sentimento di verità assoluta. Quella che stavo cercando. Rimaneva il problema dello stile. Con assoluta modestia ho provato ad usare uno stile semplice, lineare, classico. Con dei dialoghi veloci, cercando di fare buon uso della mia lunga frequentazione con il cinema dove, facendo lo sceneggiatore, sono abituato da circa quarant’anni a fare «parlare» i miei personaggi.
La trama è venuta scrivendo. Avevo un’idea in testa, un’idea forte, ma non l’ho sviluppata interamente prima di iniziare. Ho lasciato che i fatti si costruissero lentamente da soli. È incredibile, fino a metà dell’opera non avevo ancora scelto l’assassino. Quando l’ho individuato sono andato in un pub e ho bevuto molta vodka, per festeggiare.
Dove ho scrittoLa sera Roma? Soprattutto nel mio studio, dove di solito lavoro a progetti cinematografici. La mattina mi sveglio molto presto, verso le sei e mezza. È una vecchia abitudine dovuta al fatto che vado a letto prestissimo, verso le dieci e trenta di sera. Così, dopo le luci dell’alba, arrivo in ufficio, mi siedo alla scrivania e inizio a scrivere. Nella mia stanza c’è un silenzio rassicurante. Non squilla il telefono, non ci sono impiegati, sembra un tempo incantato. Che dura fino alle nove quando inizia la vita cinematografica di quel luogo. Ogni mattina ho due ore di tempo puro durante le quali riesco a concentrarmi sulla finzione, sulle parole, sulla trama. Scrivo al computer. Di solito vado dritto per dritto, senza fare correzioni, per circa un’ora. Poi inizio a rileggere. Correggo, taglio, riscrivo. Sono maniacale. Non sono mai soddisfatto di me. Sono il mio più feroce critico. I dubbi mi sfiancano. Più che mentale è quasi uno sforzo fisico. E alle nove, quando gli altri iniziano la loro giornata, io sono uno straccio.
Le idee, però, non vengono sono all’alba. Durante la giornata mi capita di avere qualche intuizione improvvisa. Ho sempre con me un taccuino e prendo appunti. Ovunque mi trovi. Mi è capitato anche di sera al cinema. Scrivo a mano in aereo, sui treni, in taxi, al ristorante. Chi mi vede farlo, sorride. Io rispondo al sorriso come per dire «questo è il mio strano lavoro».
Finita la prima stesura diLa sera Romaè iniziato il vero lavoro letterario. Ho fatto sette versioni. Qualcuna molto differente da quella definitiva. In quei momenti la scrittura assomiglia alla pittura, dove la scelta di un colore, il taglio di una figura, modifica profondamente il tutto. Bisogna sempre ricordare l’idea primitiva, quella che ti ha spinto a iniziare l’opera. Voglio dire: talvolta cambiare percorso ti fa tradire l’idea di base. Quella che ti ha spinto (costretto?) a scrivere.
Nella fase iniziale, quella della scelta dei personaggi, lo scrittore si trova a dover inventare dei veri e propri nuovi amici. Quelli che ti accompagneranno fino alla stampa del libro. E che poi, una volta rinchiusi tra le pagine del tuo libro, vivranno per sempre accanto a te. In questo romanzo ne ho scelti tantissimi. Come ho già detto molti di loro sono persone vere. Quindi tratteggiarli nella pagina è stato un lavoro di grande responsabilità, non solo letteraria ma anche etica. Accanto a loro ne ho scelti altri. Tutti di fantasia ma ispirati a modelli umani reali (anche nel cinema di solito faccio così). Questi nuovi personaggi devono farsi amare. E tu che scrivi devi amarli. Nelle loro grandezze, nelle loro miserie, nelle loro fragilità. Per me è impossibile scrivere qualcosa di «cattivo», di «ingeneroso», di «moralistico», per dipingere un mio personaggio. Rispetto sempre le ragioni degli altri. Un personaggio, una volta inventato, parla con la sua voce, si muove con i suoi sentimenti, che io trascrivo come se me li avesse raccontati lui.
Alla fine il libro viene congedato. Definitivamente. Tiri un sospiro di sollievo. Ma questa volta ho vissuto momenti davvero sorprendenti. L’ho riletto d’un fiato e mi sono accorto che conteneva tante derive non calcolate. Facevo fatica a capire il vero significato del romanzo. Mi aveva preso la mano. Si era scritto da solo. Questa scoperta inattesa, per fortuna, non mi ha provocato ansia. Anzi, ho sentito crescere in me qualcosa di appagante, quasi di rivelazione psicanalitica.
Insomma, tante cose dietro la scrittura di questo romanzo. E naturalmente non sono io a dover giudicare i risultati del mio lavoro. Una cosa però è certa: conLa sera a Romaho scritto, anche inconsciamente, esattamente quello che volevo trasmettere sul bianco di una pagina. Volevo soprattutto divertire. Costruendo, però, un mondo nel quale perdersi durante la lettura.