La Stampa, 18 febbraio 2018
Kosovo, nella giovane indipendenza prigioniera delle divisioni etniche
«Il Kosovo è come un neonato». Parla così Fatjonë Hoti, giovane studentessa kosovara, indicando il monumento alle sue spalle. Quella grande scritta in inglese «Newborn», appena nato, diventata il simbolo di Pristina dal giorno dell’indipendenza e che ogni anno si rinnova cambiando colore. Un monumento che corre più veloce del Paese che rappresenta.
Sono passati dieci anni da quel 17 febbraio 2008, quando il Kosovo si è autoproclamato indipendente dalla Serbia. Nessuno, però, poteva immaginare un processo di normalizzazione così lungo. Oggi il Kosovo, che conta quasi 2 milioni di abitanti, la maggior parte albanesi musulmani, è una regione che sogna l’Europa ma è chiusa tra i suoi confini. Riconosciuta da 116 Stati dell’Onu, tra questi Italia e Stati Uniti, deve ancora fare i conti con i Paesi che appoggiano la Serbia, come Russia e Cina, entrambi con diritto di veto alle Nazioni Unite, ma anche di membri dell’Unione Europa, tra questi la Spagna che riconoscendo il Kosovo teme di dare un’ulteriore spinta all’indipendentismo catalano.
«Siamo come in prigione», dice un paramedico trentenne dell’ospedale di Prizren, centro culturale del Kosovo. Ed è questa la sensazione più diffusa tra i giovani: Pristina infatti non ha ancora ottenuto il via libera dall’Ue per la liberalizzazione dei visti, con la disputa sulla demarcazione dei confini con il Montenegro, più vicina ad una svolta grazie alla firma di un accordo, che ha rallentato il processo. Così un viaggio fuori dai confini diventa un sogno spesso inarrivabile. Un visto costa almeno un centinaio di euro, in un Paese dove lo stipendio medio non arriva ai 400 (la disoccupazione è al 27,5%, quella giovanile supera il 50%) con i kosovari che da questo lembo di terra possono spostarsi liberamente solo in pochi Stati, come nella vicina Albania. Corruzione, immobilismo, vecchi rancori e un’economia tra le più precarie del Vecchio Continente, bloccano i sogni dei giovani kosovari in un territorio dove le differenze etniche sono ancora molto sentite, soprattutto nel Kosovo del Nord a maggioranza serba.
«Il Kosovo non esiste», è il concetto semplice quanto disarmante che, a microfoni spenti, dice un giovane ragazzo serbo a Mitrovica Nord, fisico statuario e occhi color ghiaccio, davanti a un bar a poche decine di metri dal ponte sul fiume Ibar, al tempo stesso simbolo di unione e divisione. Mitrovica è infatti la città divisa in due, o meglio è due città. A Nord i serbi, a Sud gli albanesi, due municipalità, due lingue, due sistemi scolastici, due monete differenti. Passare da questa o dall’altra parte del ponte, però, è solo formalmente possibile: esiste infatti un confine immaginario, una frontiera ipotetica fomentata da rancori e paure che non consente di circolare liberamente. A Mitrovica si trovano molte auto senza targa, con la polizia che chiude un occhio perché non potrebbe garantire l’incolumità di chi si espone, in un senso o nell’altro. Tensioni che rischiano di acutizzarsi nuovamente dopo l’omicidio del leader politico dei serbi kosovari Oliver Ivanovic, avvenuto lo scorso 16 gennaio davanti alla sede del suo partito a Mitrovica Nord.
Il tutto nella nazione più giovane d’Europa che stenta ancora a trovare la sua identità, come dimostra la recente introduzione della Festa della bandiera albanese. Il Governo di Pristina guidato dal premier Ramush Haradinaj, ex leader dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), ha infatti deciso di proclamare per la prima volta festa nazionale il 28 novembre, giorno in cui la vicina Albania celebra la sua giornata dell’indipendenza. Dal 2017, quindi, questa data simbolica è diventata la giornata degli albanesi anche nel Paese del controverso presidente Hashim Thaçi, con scuole e uffici chiusi. Pristina si è addobbata a festa con la tipica bandiera rossa con l’aquila nera a due teste, per festeggiare ufficialmente una ricorrenza da sempre sentita.
Una decisione dall’alto valore simbolico in un Paese dove difficilmente si vede sventolare quella del Kosovo, con le sei stelle che rappresentano le altrettante etnie che abitano questa terra: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani. «Il passaporto è kosovaro, la nazionalità rimane quella albanese», cercano di spiegare alcuni giovani uomini. In questo clima, il Kosovo sta festeggiando il decennale con un ricco calendario di eventi, tra questi il concerto evento di ieri sera a Pristina con l’idolo Rita Ora, giovane cantante britannica di origini kosovare. Un anniversario che diventa un banco di prova importante: la Serbia infatti, insieme al Montenegro, per la prima volta ha ottenuto una prospettiva temporale, il 2025, per l’entrata in Unione Europea. Conquista che dovrà passare dalla normalizzazione e stabilizzazione dei rapporti con il Kosovo.