la Repubblica, 20 febbraio 2018
Vertigini olimpiche, la quiete prima del salto nel vuoto
PYEONGCHANG Ascensore per il patibolo. C’è un mondo lassù che deve andare giù. Gli astronauti salutano prima di salire sulla navicella che li porterà nello spazio, i saltatori sugli sci no, si rinchiudono in clausura. Non ci sono voci, chiacchiere, familiarità. C’è solo il sacro silenzio, voluto, richiesto, rispettato. La concentrazione degli asceti della gravità. Prima di affrontare il vuoto, una vertigine su cui scorrere e scivolare lontano. Le discese ardite e le risalite. Premi un pulsante, sali a 140 metri, aspetti il tuo turno. Buffo che per saltare giù dal trampolino si prenda l’ascensore, bardati come moderni cavalieri medioevali. Scarponi, sci, caschi, guanti.
Tra Icaro e Valentino Rossi, ma senza le due ruote. Si sta insieme, si sale in gruppo, ma nessuno guarda l’altro, ognuno è dentro un suo pianeta, come in un’oscurità trasparente. Sono tutti volti a parte, già immersi nella loro verticalità. O forse lo diceva meglio Alda Merini: tutte le ombre hanno le loro vertigini.
Il salto con gli sci è come quando butti una foglia da un grattacielo. Solo che quella foglia è una persona. E si butta da sola, a 90 km orari. E non trema. Lassù c’è la camera di chiamata che sembra un’incubatrice: c’è chi si mette un asciugamano sulla testa, chi ha il casco in mano, chi sulla testa, chi si riscalda i muscoli, chi nasconde i pensieri, chi chiude gli occhi e ripassa, chi come il norvegese Robert Johansson non rinuncia ai suoi baffi d’altri tempi e ci tiene che vengano inquadrati. Bisogna essere sciamani, vedere qualcosa che ancora non c’è: l’atterraggio alla fine del salto.
Memorizzare gesti, sensazioni, traiettorie.
Pesare poco, che anche i pensieri portano i loro grammi, e forse portano anche male. E proprio l’anoressia è stato il male tipico dei saltatori dal trampolino, causata dal dimagrimento, per volare sempre più lontano, finché la federazione internazionale ha deciso di intervenire con nuove regole e accorciando gli sci ai più magri.
Non c’è paura negli occhi di chi si prepara a saltare, non ci sono ripensamenti, ma estrema concentrazione. Scordatevi gli occhi da lupo, di quelli che sbranano la notte. E non sono visi da “dead man jumping”, ma piuttosto da meccanici che ricontrollano i pezzi su cui fare affidamento e che stabiliscono l’esattezza dei loro piani di volo. Perché il corpo deve stare quieto, non deve resistere, ma invogliare forza e velocità, trovare l’angolo, fidarsi del nulla.
Calcolare il vento, quello che soffia davanti è favorevole, ti porta, quello da dietro invece è cattivo, ti ostacola. Qui si è lontani dalla terra, dalle abitudine chiassose di chi sbatte contro il mondo. Usain Bolt, sprinter giamaicano, l’uomo più veloce della storia, nella camera di chiamata allo stadio ballava, sentiva musica, faceva scherzi, correva, si allungava, Michael Phelps in quella della piscina si isolava con un asciugamano sulla testa, ci sono quelli che hanno le cuffiette e ascoltano le loro musiche portafortuna, quelli che guardano gli altri facendo finta di non farlo, quelli che guardano in basso, quelli che nevroticamente si toccano qualcosa, quelli che prima il piede destro o quello sinistro?
Ma lassù sul trampolino c’è un altro meteo, anche interiore, fuori magari c’è vento e bufera, lì dentro c’è una cuccia, c’è un tepore: la quiete prima della tempesta. Poi il contasecondi, il rumore che improvvisamente si fa vivo, la testa che non ha più gesti da ricordare, c’è solo da saltare, da farsi ingoiare dal cielo. E poi ricominciare.