la Repubblica, 20 febbraio 2018
Le capsule del tempo che svelano i sogni dei bimbi di ieri
Si può prevedere tutto tranne il futuro, direbbe Oscar Wilde. Quando la maestra Enrica, due giorni fa, ha aperto la capsula del tempo sepolta vent’anni fa in mezzo alla piazza di Marcaria, seimila anime in provincia di Mantova, gli unici a non aspettarsi sorprese erano i dieci presenti tra i quaranta ex bambini, oggi trentenni, che nel 1997 affidarono a quella scatoletta i loro sogni, le loro aspettative, i loro desideri. Nelle foto dell’evento sorridono, sapendo già quel che era scritto, e quel che è poi successo.
Per molti, dopo tutto, non è andata poi tanto diversamente dal preventivato. Greta, ad esempio, non è diventata maestra come aveva scritto, ma educatrice.
Luana voleva fare la parrucchiera, bene, è estetista. Un’altra Greta, che voleva fare l’estetista, lavora in un ipermercato ma in fondo, confida spiritosa alla Gazzetta di Mantova, «devo ugualmente sopportare l’agitazione di clienti isteriche». Giulia pure voleva diventare maestra, fa la sviluppatrice di siti Web, che è diverso ma è pur vero che quel mestiere vent’anni fa quasi non esisteva.
La vera sorpresa, allora, è scoprirli retrospettivamente così saggi, o prudenti, comunque realisti, quei teenager di fine millennio. Già così capaci, perfino troppo, di adeguare il pensabile al possibile.
Eppure i sogni, le aspettative, i desideri non sono profezie, non hanno l’obbligo di avverarsi, non ci si perde la faccia se non si avverano. Ma «chi sarò?» è comunque una domanda terribile, per un bambino di dieci anni, ormai uscito dall’età in cui è concesso immaginarsi principessa o astronauta. Anche senza pensare al tradimento più feroce del destino (quello che si è portato via in un incidente stradale Federica, che sul bigliettino aveva scritto «farò la cantante») la risposta a quella domanda ci racconta, più che i sogni di un ragazzino, le condizioni in cui la società gli permette di sognare. Sì, c’è qualcosa che mette la briglia anche ai sogni di un bambino di dieci anni, è l’aria che si respira in casa, che si intuisce dal telegiornale, o traspare dai racconti dei fratelli maggiori, esploratori del futuro… La prima capsula del tempo fu inventata proprio da studentesse, quelle del Mount Holyoke College, in Massachusetts, nel 1900. I destinatari dei loro messaggi nella bottiglia però erano i posteri: stabilirono che la scatola dovesse essere aperta solo dalle loro coetanee di cent’anni dopo.
Diventò una moda (anche Albert Einstein e Thomas Mann depositarono qualcosa in quelle navicelle del tempo) e un accessorio didattico comune nel mondo anglosassone. Ma da allora il futuro s’è un po’ avvicinato.
Programmare l’apertura dello scrigno dei desideri dopo soli vent’anni vuol dire che i destinatari programmati del messaggio sono gli stessi che lo scrivono: solo un po’ più vecchi.
Forse è pensando a se stessi come propri fratelli maggiori, da non deludere troppo, che vent’anni fa, al momento di seppellire i sogni in un cilindro di metallo in mezzo alla piazza del paese, sentendosi chiamati a un solenne esercizio di responsabilità, i bambini di allora vollero immaginarsi (ha elencato la maestra leggendo i fogliettini) camionista, geometra, contadino.
Realizzati sì, ma nel mondo del possibile, quando un possibile era ancora probabile.
E i decenni di oggi? Fra vent’anni, aprendo le time capsule con i desideri dei figli della grande crisi, che ha insegnato loro che il futuro possibile è improbabile, forse ci stupiremo di trovarci scritto: sarò astronauta, o principessa. Come dire, quando la realtà non rispetta i patti, almeno lasciatemi il sogno.