Corriere della Sera, 20 febbraio 2018
Il filo nascosto. Il talento di Daniel Day-Lewis in un atelier (quasi) perfetto
Poche altre volte ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un film così sapientemente costruito e strutturato, dove ogni scena, ogni inquadratura dà l’impressione di non poter essere che in quel posto e in quel momento. Un film talmente chiuso in se stesso da aver paura che anche un respiro più forte del normale, un colpo di tosse possa incrinarne l’equilibrio. Poche volte, pochissime, il cinema ha chiesto allo spettatore un atto di fiducia altrettanto assoluto. Nemmeno con Kubrick perché nei suoi film c’era sempre una qualche richiesta di empatia, di immedesimazione, anche solo per reagire al gelido potere del supercomputer Hal. Qui no.
Il Reynolds Woodcock di Il filo nascosto ti si mette di fronte senza preoccuparsi di apparire simpatico o affascinante (escluso per la bellezza del suo interprete, Daniel Day-Lewis: ma è un altro discorso) o all’opposto detestabile. Lui non si preoccupa di nient’altro che non sia il suo genio e il suo talento: l’ha capito la sorella Cyril (Lesley Meanville) e lo capisce a sue spese Alma (Vicky Krieps), musa modella e, occasionalmente, amante. E lo ribadisce il regista Paul Thomas Anderson, che costruisce un film dove non ci sono porte per entrare o angoli dove ripararsi: solo un percorso obbligato, una «visita guidata» all’interno di un mondo che non ammette discussioni o distinguo. Una volta che accetti l’invito puoi solo restare ammirato. Oppure decidere di non entrare nemmeno.
Non è la prima volta che Anderson racconta personaggi così assoluti: lo era il Daniel Plainview di Il petroliere, il Lancaster Dodd di The Master easuomodoloeraancheil Larry Sportello di Vizio di forma. Ma la loro guerra era contro un mondo che li contrastava o li emarginava o li rifiutava. Con Reynolds Woodcock il mondo viene lasciato fuori dalla porta del suo atelier di sartoria. Chi osa involgarire le sue creazioni viene punito (e privato del vestito) e se è il gusto comune che cambia, il suo disprezzo e il suo rifiuto è ancora più radicale: non è lui che deve adeguarsi, sono gli altri che devono pentirsi di inseguire la peggiore delle perversioni, quello di voler essere chic!
Difficile resistere alla tentazione di leggere nel protagonista del film non tanto un alter ego di Paul Thomas Anderson quanto l’idealizzazione della figura stessa del regista e del suo contrastato rapporto col pubblico. Della sua fatica artigianale (quanti primissimi piani delle mani di Day-Lewis che cuciono, mettono spilli, schizzano), della sua dedizione totale al lavoro, del suo lavoro di squadra (di cui saluta ogni membro per nome) ma anche del suo assoluto individualismo e dispotismo.
Una tentazione, quella della metafora cinematografica, confermata dalla semplicità della «storia» (che quasi non esiste) e dalla cancellazione di ogni riconoscibile rimando storico (lo spunto del film sarebbe nato da una fotografia di Balenciaga, ma il paragone si ferma lì), quasi a sottolineare nel mezzo del cammin della sua vita – Anderson si avvicina ai cinquanta – il bisogno di ribadire le «regole» del proprio lavoro e delle proprie scelte.
Con la coscienza, però, che un piccolissimo granello può sempre entrare negli ingranaggi di una macchina perfetta e metterla in crisi. Nel film è l’amore di Alma, non più disposta ad accettare un rapporto solo univoco, di dare e non di avere (e come arriverà a rivendicare questo ruolo prenderà la forma del giallo, o quasi). Nella più generale visione del cinema può essere la lotta contro il livellamento dei gusti e delle forme, contro il predominio dello storytelling sulla bellezza, la scommessa che la propria radicalità registica possa in qualche modo infrangere la marea dell’omologazione e della banalizzazione.
Una scommessa azzardata, che Paul Thomas Anderson sembra voler combattere ribaltando la logica delle cose, per via di assurdo. Pronto a rischiare l’accusa di elitarismo e aristocraticità chiuso nel suo universo di bellezza e perfezione. Perché dopo aver visto il film quel che ti resta dentro è la paura di poter «rompere» qualcosa di miracolosamente perfetto se ti avvicini con troppa foga o superficialità. Come maneggiare un lampadario di Murano senza le dovute precauzioni.