Corriere della Sera, 20 febbraio 2018
Le ragioni di una strage
Quando a Roma, nel 1828, Stendhal entrò nella Sala Regia del Palazzo del Vaticano destinata a ricevere i sovrani in visita ufficiale, si fermò a guardare le decorazioni murarie e ironizzò: «Dunque c’è un luogo in Europa in cui l’assassinio è pubblicamente onorato!». Dapprima, nello spazio a destra della porta che conduce alla Cappella Sistina, Giorgio Vasari aveva dipinto – su commissione di Papa Gregorio XIII – il ferimento del capo degli ugonotti Gaspard de Coligny; poi, sulla parete nord, a destra del trono papale, il massacro dei calvinisti francesi nonché l’uccisione dello stesso Coligny; infine, a sinistra del seggio pontificio, era ritratto il re di Francia Carlo IX, in Parlamento, nell’atto di assumersi la responsabilità di quella strage.
Stendhal aveva colto nel segno: con quegli affreschi Papa Gregorio (insediatosi nel 1572, l’anno stesso della uccisione dei protestanti parigini) aveva inteso rendere onore alla strage di San Bartolomeo, in omaggio alla quale, peraltro, aveva già fatto celebrare un solenne rito di ringraziamento e disposto il conio di una medaglia commemorativa. Tale omaggio fece e fa ancora scandalo. Ed è a questo scandalo, oltreché a La strage di San Bartolomeo in sé, che è dedicato adesso un coraggioso libro di Stefano Tabacchi che (con il sottotitolo: Una notte di sangue a Parigi ) la Salerno editrice si accinge a dare alle stampe.
Il saggio di Tabacchi rifiuta di adeguarsi al mito demonizzante che avvolge l’uccisione degli ugonotti consumata a fine agosto del 1572. Un mito che ha sempre presentato Carlo IX come un sovrano sostanzialmente succube di una madre intrigante e sanguinaria, Caterina de’ Medici, e i calvinisti come vittime di una «guerra di religione» voluta – strage inclusa – dalla Chiesa di Roma.
La notte di San Bartolomeo, scrive a tal proposito lo storico, è stata «rapidamente individuata come una delle numerose macchie della storia europea, frutto di cieco fanatismo religioso». Tant’è che ben presto nel corso dell’età moderna, anche nel mondo cattolico si è manifestato «imbarazzo per quella pagina così sanguinosa»: recentemente, lo stesso papa Francesco l’ha richiamata con disappunto («Anche noi dobbiamo chiedere perdono… Caterina de’ Medici non era certo una santa!», sono state le parole del Pontefice). Come se intendesse in tal modo «bilanciare lo sdegno per gli attacchi del terrorismo islamista», nota Tabacchi con una punta di perfidia. Caterina, vedova di Enrico II, fu in realtà – tiene a precisare lo storico – «una personalità politicamente avvertita e culturalmente sfaccettata». Quando morì suo marito, Caterina diede il consenso a che suo figlio Francesco II introducesse nel Paese una forte discontinuità politica. Ove mai possa essere considerato tale, il suo «grave errore» era stato quello di incoraggiare la «rivoluzione di palazzo» di Francesco II, che aveva prodotto una saldatura tra grandi famiglie aristocratiche escluse dal potere, il cui malcontento andò ad ammantarsi con i panni della Riforma calvinista. Riforma che peraltro nel 1560 (l’anno successivo alla morte di Enrico II) aveva già conquistato due milioni di francesi, circa il dieci per cento della popolazione. E proprio il 1560 fu l’anno della prima, sfortunata, sollevazione ugonotta.
Qui inizia la fase più interessante di questa storia: Caterina e suo figlio Francesco, anziché reprimere brutalmente gli ugonotti, scelgono allora la via dell’ «interlocuzione»: mettono in campo, con il cancelliere Michel de l’Hospital, i politiques (politici) e i moyenneurs (mediatori) che fanno riferimento a due vescovi moderati, Jean de Monluc e Charles de Marillac. Ma gli ugonotti la prendono come una prova di debolezza, si mobilitano militarmente e tentano di occupare Lione. In tale occasione, siamo alla fine di quello stesso 1560, Francesco II, reagì con durezza. Però immediatamente dopo il re, diciassettenne, morì. E Caterina, reggente, tornò ad «una (relativa) tolleranza religiosa». Ma qualche tempo dopo gli ugonotti mossero di nuovo all’attacco e nella notte di San Michele, tra il 29 e il 30 settembre del 1567, a Nimes, fecero fuori decine di ecclesiastici e notabili cattolici. Tant’è che, secondo la studiosa statunitense Barbara B. Diefendorf, quelle violenze sarebbero da considerarsi (più in piccolo e a parti invertite) un’anticipazione della notte di San Bartolomeo.
Gli ugonotti furono nuovamente sconfitti dall’esercito regio, ma ad un tempo si rinsaldarono in un discreto numero di città fortificate (Orléans, Nimes, Valence, Maçon, Montpellier, Auxerre) e nella valle della Loira ricevettero l’aiuto di diecimila mercenari inviati dall’elettore del Palatinato Federico III. In più, avevano stabilito rapporti con i calvinisti dei Paesi Bassi ribellatisi al re Filippo II di Spagna. Oltretutto i calvinisti potevano contare sull’appoggio militare del principe Guglielmo d’Orange, di Elisabetta I d’Inghilterra e del duca Wolfgang di Baviera, che nel 1569 decise di invadere la Borgogna con circa quindicimila mercenari.
Ma il nuovo re Carlo IX che, secondo Tabacchi, era tutt’altro che «una personalità scolorita o debole come è stato spesso rappresentato», riuscì a ristabilire un equilibrio: dopo la battaglia di La Roche-L’Abeille (giugno 1569) vinta dai riformati, le truppe regie guidate dal maresciallo Tavannes ottennero una rivincita a Moncontour (ottobre 1569). E fu un ennesima pace suggellata dal celebre editto di Saint-Germain (8 agosto 1570), il quale stabiliva che «la memoria di tutte le cose passate da una parte e dall’altra, sia nel corso che dopo i disordini avvenuti nel nostro Regno e in loro occasione, rimanga estinta e addormentata come cosa non avvenuta». L’editto, in più, conteneva una clausola per la quale avrebbe dovuto essere considerato «perpetuo» e «irrevocabile». Invece trascorsero appena due anni e…
Dopo il 1570 Carlo IX divenne sempre più ben disposto nei confronti degli ugonotti e antipatizzante nei confronti della Spagna. Finché uno strano attentato a Coligny e la confusione delle ore successive (gli ugonotti chiesero sostanzialmente la cogestione del potere) spalancarono le porte alla mattanza. La notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572, nella capitale francese furono uccisi – per ordine o con l’avallo implicito del re – molti aristocratici protestanti. Primo tra tutti lo stesso Coligny. Nelle ore che seguirono, precisa lo storico, il massacro si estese, «in maniera largamente autonoma» (cioè senza un impulso del sovrano), e determinò la morte di alcune migliaia di persone.
Qui il primo interrogativo: fu un’ecatombe preparata con cura per mesi o addirittura per anni? No, risponde Tabacchi, «non c’è in tal senso alcun documento veramente probante» che dimostri l’ordito di Caterina de’ Medici al fine di eliminare – come si disse allora – i capi ugonotti. Anzi la strage segnò «un improvviso cambio di politica di una monarchia che aveva puntato il suo prestigio e la sua autorevolezza nell’affermazione della concordia tra cattolici e calvinisti… concordia che doveva essere consacrata da un matrimonio che fu all’origine della strage». In che senso?
Cinque giorni prima di quel 23 agosto, infatti, si era svolto a Parigi il matrimonio tra la sorella del sovrano, Marguerite de Valois – la regina Margot del romanzo di Alexandre Dumas (padre) – e il più importante aristocratico ugonotto, Enrico di Borbone, re di Navarra, futuro Enrico IV di Francia. Sembrava dovesse essere l’alba di un giorno di pace e di concordia e al contrario fu l’inizio della notte più buia della storia francese. Fu sufficiente una provocazione ugonotta e scattò una rappresaglia senza quartiere. Quel che accadde in quelle ore è ben illustrato da un quadro dell’artista ugonotto François Dubois conservato al Museo cantonale delle Belle Arti di Losanna, con circa centocinquanta figure, definito da Tabacchi un autentico «catalogo degli orrori di quella giornata, una sorta di apocalisse macabra, con bambini e donne incinte massacrati a colpi di spada, di fucile, di bastone oppure impiccati».
Nella Roma di Gregorio XIII (eletto Papa poco tempo prima, il 13 maggio, sicché non ebbe alcun ruolo, se non marginale, negli eventi di Francia), la vittoria contro i turchi a Lepanto nell’ottobre 1571 e le uccisioni nella notte di San Bartolomeo nell’agosto 1572 «crearono, per un breve spazio di tempo, l’illusione di una ricostruzione della cristianità europea sotto l’egida del papato». Ricostruzione che, nelle intenzioni del Pontefice, avrebbe dovuto pareggiare i conti con i danni provocati dalla Riforma luterana. Ma le cose non andarono nei modi previsti. Quella notte (e ciò che ne seguì) fu molto di più. E di diverso. Tra l’altro la partita, se così la vogliamo definire, non fu né «solo politica», né «semplicemente religiosa». Riguardò piuttosto «la grande questione di cosa dovesse essere lo Stato francese»: una monarchia «tendenzialmente assoluta» e in prospettiva abilitata ad «assorbire il dualismo confessionale nella “sacralizzazione” del potere» o «una realtà caratterizzata da un policentrismo politico e religioso fortemente conflittuale e quindi incapace di produrre stabilità istituzionale». Probabilmente optare per la prima via – in un continente peraltro già di per sé insanguinato dalle guerre di religione – fu una scelta non impropria. Forse addirittura saggia.
Perciò, richiamare adesso alla memoria quella notte del 1572 come se si trattasse di un lontano antefatto alle azioni terroristiche di Al Qaeda o dell’Isis non ha, ad ogni evidenza, «niente a che vedere con la riflessione storiografica», scrive Tabacchi. Fa parte piuttosto di un tipo di ricorso alla storia che, specialmente in Europa, «appare sempre più caratterizzato da una generale tendenza delle autorità politiche, religiose e del ceto giornalistico-intellettuale a promuovere forme di riconciliazione rispetto a eventi storici più o meno antichi e a riconoscere ad una miriade di gruppi (etnici, religiosi, politici) un diritto a qualche forma di riparazione per i torti subiti». Torti subiti, anche cento, cinquecento, mille, duemila anni fa. Di qui, si sdegna lo storico, «il proliferare di “leggi memoriali” di cui anche la dottrina giuridica più avvertita comincia ormai a segnalare la confusione concettuale e le pesanti conseguenze sull’ordinamento». A cosa si deve questa confusione? Tabacchi lo spiega con la crisi, «probabilmente irreversibile», della «capacità degli Stati europei di fondare una memoria pubblica». Più specificamente alla scelta di dare corpo alla costruzione dell’Unione Europea inventando un passato «che tenda a espungere le identità più connotate in senso conflittuale e ad affermare un riconoscimento universale delle molteplici identità, offrendo generosamente forme di riabilitazione, simbolica e non solo, dei torti subiti». Veri o presunti.
Si è insomma passati dalla esaltazione delle «memorie nazionali, centrate su una storia “gloriosa” di successi e vittorie», a una «diffusa e pervasiva valorizzazione di sconfitte, persecuzioni e catastrofi». Il rischio connesso a questo modo di procedere, è, ad ogni evidenza, quello che i vecchi richiami al passato non vengano sostituiti da alcun «mito fondatore», bensì «da una generale decomposizione identitaria». Il «paradigma vittimario» e le semplificazioni non offrono però nessun aiuto a chi sia desideroso di capire cosa accadde davvero in questo o quel momento del passato. Collocare la notte di San Bartolomeo all’interno di una «storia del fanatismo religioso dai confini non ben definiti o ideologicamente manipolabili», fa perdere di vista ogni specificità dell’evento e lo fa tornare ad essere «pressoché incomprensibile, come era per molti contemporanei». Considerazioni, quelle di Tabacchi, che valgono, evidentemente, per un’infinità di eventi storici. Tutti, probabilmente.