Corriere della Sera, 20 febbraio 2018
Chi ha paura dei robot?
Il commento più rassegnato: «Bye bye humanity». Quello più agguerrito: «F**k robots» (l’utente ha elegantemente usato le due stelline...). È bastato un video postato su YouTube da Boston Dynamics, società nata negli Usa per sviluppare robot militari e poi entrata nella galassia Google X prima di finire alla giapponese Softbank, per risvegliare qualcosa di più profondo di un semplice luddismo: la paura. «Questo ricorda la scena in cucina di Jurassic Park».
In effetti è vero: un robot quadrupede-Frankenstein con un braccio al posto della testa si avvicina a una porta con la maniglia. Inizia ad interagire con essa. La muove. Apre la porta e fa passare suoi simili che entrano nella stanza. Di per sé è un video abbastanza ingenuo, che mostra quasi lo stato primitivo dei robot: impiega diversi secondi per fare un’operazione che anche alcuni gatti hanno imparato a fare (guardare relativo video su YouTube). Se pensiamo che un bambino impara a svolgere questa operazione in un secondo nei primissimi anni di vita ecco svelato lo stadio evolutivo dei robot.
Eppure è anche vero che, vuoi per il richiamo a scene cinematografiche entrate ormai nell’immaginario collettivo (Jurassic Park, certo, ma anche Terminator), vuoi per il valore simbolico della porta come muro per la nostra privacy, il video crea una sua tensione.
Se ci si pensa con freddezza un robot potrebbe anche romperla quella porta. Ne avrebbe la forza.
Esistono armi più complesse e potenti che possono danneggiare l’uomo su larga scala. Perché dunque questa paura quasi ancestrale nei confronti dei robot?
Una ragione esiste. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, lo chiamava il perturbante, uno stato d’animo che suscita un interiore turbamento legato al fatto di sentirsi attratti da qualcosa che sentiamo paradossalmente a noi vicino. In lingua tedesca il termine è Das Unheimliche, un aggettivo sostantivato utilizzato da Freud come termine concettuale per esprimere una paura molto specifica. Uno spaesamento legato a una familiarità repulsiva.
Nel saggio del 1919 intitolato proprio «Il perturbante», Freud analizzava L’uomo della sabbia di Hoffmann (1815) individuando nell’orco l’origine di questo timore inconscio.
Sempre nel libro di Hoffmann compare anche Olympia, una bambola capace di animarsi. Ecco il nostro robot «ante litteram». È lo stesso fascino prodotto dal mostro di Frankenstein: vediamo un essere simile a noi, tentiamo di riportare la sua immagine a qualcosa di familiare. Eppure ne abbiamo orrore. Con i robot, umanoidi o quadrupedi, accade la stessa cosa.
Quelli del video potrebbero essere dei simpatici «pet» casalinghi. Dei giocattoli super-evoluti. La nostra psiche li accetta. E la nostra psiche allo stesso tempo li rifiuta.
Ma al di là delle ragioni più profonde che possono giustificare una iniziale ansia, resta da capire se sia giustificata una caccia alle streghe in cui un quadrupede prenda il posto delle povere donne bruciate nel Medioevo.
Forse oggi i veri timori dovrebbero essere altri. In ordine sparso: l’esplosione di attacchi informatici che non rendono più le nostre informazioni sicure. La capacità della tecnologia di influenzare, almeno in parte, anche le elezioni di un grande Paese come gli Stati Uniti. La perdita di conoscenza e di capacità mnemoniche legate al nostro continuo abuso della tecnologia forse più familiare ma non meno pericolosa degli smartphone. Il cyberbullismo che rende una pratica di quartiere un fenomeno dal quale non si può fuggire nemmeno cambiando identità o città. La spaventosa concentrazione non solo di ricchezza ma anche di potere economico in poche colossali nuove società più potenti dei governi dei grandi Paesi. Alla fine non dimentichiamo che il quadrupede che apre la porta forse è anche il risultato dell’ingegno umano. A Leonardo da Vinci sarebbe piaciuto.