Corriere della Sera, 20 febbraio 2018
Un costo diverso per ogni laurea
Londra Ci sono lauree che valgono più di altre? E per le quali, dunque, è giusto far pagare rette più alte agli studenti? In Inghilterra sembrano convinti di sì: tanto che la premier Theresa May ha lanciato una revisione dell’intero sistema di tasse universitarie, con l’obiettivo di introdurre un regime «a fasce». In pratica, per studiare materie scientifiche, considerate le più redditizie sul mercato del lavoro, bisognerà sborsare di più che per le lauree umanistiche, offerte a prezzi «scontati».
Attualmente «il livello delle rette non corrisponde al costo o alla qualità dei corsi», ha detto la May. Pertanto, ha spiegato il ministro dell’Istruzione Damien Hinds, verrà introdotto un percorso differenziato basato sui «benefici per lo studente, per l’economia nazionale e per il Paese».
Ma è importabile in Italia un modello simile? Solo fino a un certo punto. Perché va tenuto presente che in Inghilterra l’università costa 9.250 sterline l’anno, oltre diecimila euro: e che di rado i genitori sovvenzionano i figli, che invece si pagano gli studi grazie a prestiti d’onore che poi ripagheranno una volta trovato un lavoro. Ma il risultato è che la maggioranza dei ragazzi esce dall’università gravata da un debito medio di 50 mila sterline, quasi sessantamila euro.
I fautori di questo sistema fanno notare che gli studi superiori restano un buon investimento: in Inghilterra un laureato guadagnerà nel corso della sua vita centinaia di migliaia di sterline in più di chi non ha il «pezzo di carta», dunque il gioco vale la candela. E però c’è un distinguo importante: a cinque anni dalla laurea, chi ha fatto medicina, economia o matematica, magari a Oxford o alla London School of Economics, porta a casa fra le 40 e le 50 mila sterline l’anno di stipendio, mentre chi ha studiato arte, psicologia o comunicazione, magari in un’università di secondo piano, deve accontentarsi della metà. Ecco dunque l’idea di rette differenziate, commisurate al ritorno economico della laurea.
In Italia, al contrario, lo scarto di retribuzione fra chi ha la laurea e chi no è molto più ridotto, così come sono meno abissali le differenze fra università più quotate e altre più scarse. Per non parlare del livello di disoccupazione o sotto-occupazione fra i laureati. Tanto che si sono levate voci a favore di un’istruzione tecnica, più legata alla realtà del lavoro, a scapito del percorso universitario. Ma anche in Italia chi ha difeso il valore degli studi superiori ha sottolineato l’importanza di privilegiare lauree «utili».
E qui andrebbe fatta una considerazione sulla base della realtà inglese, che serve a contraddire in parte quanto sostenuto dallo stesso governo di Londra e che andrebbe tenuto a mente come esempio per l’Italia. Oltremanica vige una estrema flessibilità tra percorso di studi e sbocchi lavorativi: l’importante non è la materia seguita, ma l’aver dimostrato di essere bravi e capaci. Tanto che la metà degli avvocati inglesi non ha fatto legge all’università: ha studiato altro e poi ha seguito un corso di specializzazione legale post-laurea. Così come per lavorare nella City non è necessario aver studiato economia: PwC, il colosso della revisione e consulenza aziendale, compra pagine di pubblicità sui giornali per rivolgersi ai laureati in materie umanistiche e spiegare che gli specialisti in storia antica o belle arti sono i benvenuti in azienda. Pure i diplomatici, cui da noi sono richiesti studi giuridici o economici, hanno provenienze disparate: l’ambasciatrice a Roma, Jill Morris, ha fatto lingue. Dunque «pesare» le lauree può aver senso, ma senza finire per rinchiudersi in gabbie rigide.