Corriere della Sera, 20 febbraio 2018
O la Borsa o la vita
Andrea e Senes lavorano all’Embraco da quando erano ragazzi, si sono conosciuti e innamorati lì, in mezzo ai frigoriferi. Ma tra un mese la fabbrica li manderà via, con altri cinquecento disperati, per trasmigrare in Slovacchia. Per quella coppia di operai la perdita del posto non significa soltanto rimettersi in gioco a un’età in cui di solito si tracciano i primi bilanci esistenziali. Significa non sapere più come onorare il mutuo della casa, la rata dell’auto, la mensa scolastica della bambina.
Nel respingere la mediazione del governo, i dirigenti della multinazionale (definiti «gentaglia» dal ministro Calenda) hanno giustificato i licenziamenti con le pressioni della Borsa. E qui vorrei che qualche economista mi illuminasse. Se ciò che rende felice un operatore finanziario getta altri esseri umani nella disperazione, non sarà che il sistema è impazzito? In un mondo sano di cuore e di mente, la Borsa dovrebbe eccitarsi per l’assunzione di cinquecento operai e deprimersi per la loro cacciata, non il contrario. Calenda ha ricordato la responsabilità sociale d’impresa, sancita dalla Costituzione, ma oramai certi concetti sembrano relitti di un’epoca perduta, come i pantaloni a zampa d’elefante. Restando più terra terra, viene da chiedersi: Andrea e Senes sono lavoratori e consumatori al tempo stesso. Se loro, e quelli come loro, non percepiranno più uno stipendio, a chi li venderà in futuro, la multinazionale, i suoi meravigliosi frigori-feri?