La Stampa, 20 febbraio 2018
Ue-Turchia, la sfida del gas
II rosario di scoperte di nuovi giacimenti di gas in parecchie zone del Mediterraneo orientale ha immediatamente scatenato le cupidigie di tutti gli Stati che ritengono di poter vantare diritti di sfruttamento su quelle acque per vario motivo contestate.
Esso minaccia inoltre di annullare i ruoli di privilegio di cui godevano la Russia, fornitore pressoché unico del nostro continente, nonché la Germania, placca tornante della distribuzione europea. Le nuove scoperte incidono infine anche sulla programmata geografia del trasporto del gas rendendo superfluo il gasdotto che dalla Russia meridionale doveva giungere in Europa passando per la Turchia ed esaltando invece il ruolo di Cipro come possibile polo di una nuova rete di distribuzione. Anche in questo caso quindi il cambiamento risulta tutt’altro che indolore, registrando vincenti e perdenti. A complicare ulteriormente questo quadro il fatto che tutto ciò stia avvenendo in un mare teatro di problemi politici di lunga durata. A Sud infatti le scoperte sono avvenute per la maggior parte in aree molto prossime alla linea di separazione fra Israele ed i Paesi arabi. Una delle zone che il nostro Eni dovrebbe esplorare in futuro, la cosiddetta area 9, consiste addirittura in un ampio spicchio di mare su cui tanto Israele che il Libano rivendicano diritti di sfruttamento esclusivi. Più a Nord poi la situazione si presenta al momento ancora più pesante, condizionata come essa è da un contenzioso greco turco mai del tutto sopito imperniato su una isola di Cipro che nella finzione giuridica internazionale rimane Stato unico ma nella pratica è divisa ancora in due parti. La Turchia inoltre lamentava da tempo il fatto che la presenza di numerose isolette greche prossime alle sue coste riducesse pressoché a nulla i suoi diritti sul mare prospiciente.
L’incidente della nave Saipem noleggiata dall’Eni che non ha potuto raggiungere la prevista zona di trivellazione concordata con Cipro in quanto trattenuta dai turchi a causa di esercitazioni militari in atto nell’area, si inserisce appunto in questo aggrovigliato contesto, aggiungendovi un ulteriore elemento di complicazione. Anche se si tratta in ogni caso di un modo molto chiaro da parte di Ankara per evidenziare la propria insoddisfazione per l’attuale stato di cose ci sono comunque alcune domande che occorrerebbe porsi a riguardo. Erdogan è infatti reduce da una visita di Stato in Italia che gli avrebbe agevolmente consentito di esprimere al Presidente della Repubblica e del Consiglio il proprio scontento, evitando ai due Paesi di entrare in questo vicolo cieco che rischia di danneggiare entrambi. Lo ha fatto? Non lo ha fatto? L’ipotesi che si sta affermando è che egli abbia toccato l’argomento ma lo abbia fatto in termini orientali, vale a dire in modo tanto indiretto da finire con l’essere non compreso o sottovalutato dai suoi interlocutori.
La seconda riguarda la libertà di azione dell’Eni ed il suo modo di muoversi nello scenario internazionale. Sin dall’inizio l’Ente è stato infatti pressoché autonomo ed in alcuni momenti ha addirittura condizionato la politica italiana più di quanto la politica non lo condizionasse. I tempi di Mattei però sono finiti da parecchio e diviene quindi logico chiedersi se la decisione di Eni di operare in zone di mare contestate sia stata presa o meno con l’approvazione del governo. Già una volta nel recente passato, in Libia, siamo stati costretti ad aderire ad una coalizione bellica per evitare che le infrastrutture Eni rientrassero nell’elenco degli obiettivi da colpire. Il fatto avrebbe dovuto insegnarci qualcosa su ciò che può succedere allorché ci sono poste energetiche in gioco! In questa ottica un più stretto controllo governativo sull’Eni apparirebbe quanto mai opportuno.
Dal punto di vista pratico comunque l’uomo forte della Turchia rischia in questo caso molto poco, almeno nell’immediato. Specie sotto elezioni, nessuno appare infatti disposto in Italia a fare la voce grossa. Quanto all’Unione Europea, condizionata dal ricatto turco sui migranti siriani che tanto sta a cuore alla Germania, la sua prima reazione è stata più un pigolio che un ruggito. Sulla lunga scadenza insistere potrebbe però rivelarsi molto pericoloso. Erdogan sta infatti proiettando una immagine di sé stesso e del suo Paese che ricorda sempre più quella delle dittature europee nel periodo fra le due guerre, cosa che ha già reso in pratica del tutto impossibile l’accettazione della Turchia fra i Paesi membri della Unione. Altrettanto pesante sta diventando la posizione turca in ambito Nato, anche a seguito dell’annunciato acquisto di missili contraerei russi. Per ora nell’ambito della Alleanza Ankara gode ancora di una simpatia americana che però Erdogan sta ponendo a dura prova con il suo recente intervento in Siria.
Il rischio per la Turchia è quindi duplice: da un lato essa potrebbe infatti essere «congelata» dalla Nato, cosa che l’Alleanza sa fare benissimo nei momenti in cui qualche alleato diviene sgradito, dall’altro poi l’Unione Europea potrebbe essere tentata di escluderla del tutto dal piano complessivo dei suoi gasdotti meridionali. Prospettive realistiche? Siamo ancora lontani dal limite forse, ma a tirare troppo anche le corde più forti finiscono col rompersi!