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 2018  febbraio 20 Martedì calendario

Nelle Maldive lontane dai resort la crisi politica piega il turismo

La vita a Male è come una partita a scacchi: lenta, intricata, un po’ annoiata, ogni giorno diversa ma in fondo sempre uguale. Nella capitale delle Maldive, due chilometri quadratati in cui vivono oltre 150 mila persone, tutto è un gioco a incastri: i fiumi di scooter nei vialetti, le partite a pallone tra i palazzoni, i banchi al mercato, le manovre dei traghetti al porto. E anche gli equilibri politici che in questi giorni minacciano un Paese e la sua più grande risorsa: il turismo.

Le vicende governative (il presidente Abdulla Yameen ha dichiarato lo stato di emergenza il 5 febbraio e ieri ne ha chiesto la proroga) ricordano le sfide tra pedoni e regine che si tengono nei caffè affollati di anziani: sono sulla bocca di tutti anche se non sembrano appassionare nessuno. Di certo preoccupano i maldiviani che con i vacanzieri ci lavorano.
Qui dal 2011 è cambiato tutto. L’allora presidente Mohamed Nasheed, oggi in esilio a Londra, ha dato il via all’apertura di strutture ricettive anche sulle isole abitate, rivoluzionando un business che fino a quel momento riguardava solo i resort in mano agli stranieri.
Lakey ha 24 anni e gestisce una guesthouse sull’isola di Ukulhas, a un’ora e mezza di motoscafo da Male. Non è mai uscito dal Paese ma nel giro di un anno ha stravolto la sua vita: «Facevo il pescatore, oggi sono un manager» racconta fiero. «Speriamo che la situazione si risolva o sarebbe un grosso danno. Ai clienti diciamo che sulle isole non ci sono rischi, ma alcuni rinunciano al viaggio».
Quella del turismo locale è stata una svolta per migliaia di persone che all’improvviso hanno visto aprirsi le porte dell’imprenditoria. Gli stranieri che arrivano nel Paese (8,5 milioni nel 2017 tra cui 88 mila italiani) sono in costante crescita soprattutto grazie a queste nuove opportunità turistiche. Il paradiso di acqua e coralli è lo stesso, l’esperienza molto diversa: soggiornare in un’isola di maldiviani vuol dire svegliarsi col richiamo del muezzin, far colazione al bar sorseggiando yè yè insieme agli abitanti del posto, muoversi con motoscafi di linea e rinunciare all’alcol che, per effetto della religione islamica, resta bandito. Oggi nel Paese si contano oltre 450 guesthouse a fronte di un centinaio di resort. E i numeri sono destinati a salire: nel 2017 i volumi di affari legati alle vacanze sono aumentati fino a sfiorare i 3 miliardi di dollari, oltre l’80% del Pil nazionale.
Calcolare l’impatto di questa crisi politica sul turismo è difficile, ma di certo le raccomandazioni di molti Paesi tra cui India e Cina a evitare viaggi alle Maldive (l’Italia sconsiglia solo Male), potrebbero avere ripercussioni pesanti. I timori sono gli stessi anche nella capitale: «Leggendo su Internet sembra che qui ci sia il finimondo» dice Nashid, 26 anni, da due impiegato in una compagnia che si occupa di trasporti. «Gli stranieri sono spaventati, ma è tutto tranquillo». In effetti l’aria che si respira in città non è quella di una nazione sull’orlo di un colpo di Stato. Di giorno l’area intorno al Parlamento è deserta e manifestanti in giro non se ne vedono. Radunarsi intorno ai palazzi governativi è vietato e i più temerari si limitano a urlare qualche slogan sfrecciando sui motorini. «Sono giochi di potere e soprattutto di soldi» continua Nashid. «La nostra vita non è cambiata». E basta fare due passi per rendersi conto che non mente. Lungo le spiagge artificiali di Rasfannu giovani coppie e famiglie aspettano il tramonto sulle panchine di corda intrecciata. Ci sono bambini che si tuffano in mare, anziani a passeggio. I ristoranti sono aperti ovunque. Shuan fa il cameriere in un locale con terrazza che affaccia sul retro del Parlamento. «Non abbiamo visto proteste» spiega con un mezzo ghigno. «Dovete chiedere a loro che cosa sta succedendo» aggiunge indicando i militari di guardia a pochi metri. Si chiamano Ahmed e Shamil, hanno divise fresche di stiro e facce pulite. Rispondono a monosillabi confermando che «tutto è tranquillo». Non evitano domande sui manifestanti «pochi e solo la sera» o sugli arresti «li ha fatti la polizia», ma non capiscono perché in Europa interessino le loro vicende.
I più colpiti da questa fase di instabilità rischiano di essere proprio i giovani che, specie nella capitale, sono già costretti a fare i conti con costi della vita proibitivi. «Alle Maldive si vive bene e il lavoro non manca» racconta il 27enne Ajwad, da cinque anni addetto in un hotel nel centro di Male. «Avere una casa però è un lusso». Lui condivide una stanza con altri quattro ragazzi perché un appartamento nella capitale costa circa duemila dollari al mese, troppo anche per chi ha un impiego fisso. In tanti decidono di lasciare la capitale per lavorare nelle isole. Altri invece tentano la fortuna in Sri Lanka o in India dove i prezzi sono più bassi. Scelte azzardate, scommesse, come in una partita di strategia. Inseguono il sogno che è quello dei giovani di tutto il mondo: trovare la strada per lo scacco matto.