La Stampa, 20 febbraio 2018
Da Perugina e Saeco alla Borsalino. La lunga lista di aziende italiane comprate e poi abbandonate dai gruppi stranieri
Comprate e abbandonate: è lunga la lista delle imprese italiane – in molti casi marchi storici e insediamenti produttivi di lunga tradizione – acquistate da gruppi stranieri con promesse di rilancio, e poi, com’è accaduto alla Embraco, pesantemente ristrutturate, ridimensionate, oppure definitivamente chiuse.
Una lista esaustiva è impossibile, ma di casi di questo tipo ce ne sono stati molti. Ad esempio, la vicenda della Saeco, nel bolognese: un marchio storico dei piccoli elettrodomestici e macchine da caffè che nel 2009 è stato acquistato dalla Philips, e poi improvvisamente chiuso nella primavera del 2017. Dei 240 dipendenti del sito solo 60 sono stati rioccupati. Diversa è la storia della Acciaieria di Piombino, ceduta dopo una grave crisi agli algerini della Cevital: invece del promesso rilancio, i 2100 dipendenti hanno dovuto constatare la volontà della proprietà di chiudere e portare via i macchinari; adesso il contratto è stato rescisso, ma una soluzione non è alle viste.
Nel caso dell’acquisto da parte dei tedeschi di Heidelberg del più grande gruppo del settore italiano, la Italcementi, la nuova proprietà ha deciso di chiudere la sede amministrativa e direzionale di Bergamo, con 420 dipendenti giudicati esuberi. La vertenza è stata poi risolta in modo concordato tra azienda e sindacati. È scampato alla chiusura lo storico gruppo dell’elettromeccanica di Legnano Franco Tosi, portato sull’orlo fallimento dai proprietari indiani della Gammon, e ora passati agli italiani di Presezzi. Non ha funzionato invece il rilancio, dopo una lunga crisi, dei cappelli Borsalino ad Alessandria da parte del fondo svizzero Haere Equita: l’azienda è fallita. La multinazionale
Nestlé acquistò oltre venti anni fa dallo Stato le attività della Perugina: in questi anni l’azienda ha registrato sempre un progressivo ridimensionamento, e nello scorso autunno Nestlé ha annunciato 364 esuberi, nonostante nel 2016 sindacati e azienda avessero siglato un accordo per il rilancio della fabbrica di cioccolato. In questi giorni sembra vicina una soluzione condivisa, con proroga della Cigs e ricorso alle «isopensioni» in deroga alla Fornero.
Lunga e complessa la vicenda della Acciai Speciali Terni, storica fabbrica venduta e ricomprata più volte tra Germania e Finlandia, ed ora di proprietà della multinazionale tedesca ThyssenKrupp. C’è preoccupazione per il sito: dopo la nascita della joint venture con il colosso indiano Tata Steel, ThyssenKrupp ha annunciato lo scorporo della divisione che comprende lo stabilimento ternano. Non ha portato fortuna al marchio storico dei latticini Galbani la cessione al colosso francese Lactalis: l’attività ha registrato un costante declino, e tra i lavoratori rimasti c’è grande preoccupazione.
Un altro marchio storico dell’industria elettromeccanica nazionale, la Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, dopo una lunga serie di crisi e passaggi di proprietà è stata ceduta dal colosso ferroviario francese Alstom agli americani di General Electric, che ha annunciato subito quali l’intenzione di chiudere lo stabilimento e liberarsi dei 150 dipendenti. Dopo una durissima vertenza con l’occupazione della fabbrica, la procedura è stata sospesa, mentre sono in corso negoziati per la vendita della fabbrica.
Fallito decisamente anche il rilancio della Piaggio Aerospace, erede del marchio Rinaldo Piaggio, azienda produttrice di aerei controllata dal 2014 dal fondo sovrano arabo Mubadala. La crisi è nerissima, e i lavoratori dello stabilimento di Villanova d’Albenga temono lo “spezzatino”, con la cessione a misteriosi investitori cinesi della proprietà intellettuale connessa al ramo d’azienda di Piaggio Aerospace che produce il jet executive P180. Infine, forse la più grossa e conosciuta cessione a stranieri di un gruppo italiano andata a finir male: quella di Alitalia.