Libero, 17 febbraio 2018
Rivolta di registi scrocconi. In 100 vogliono salvare un cinema all’aperto a Roma, senza pagare
È vero, siamo nostalgici dei vecchi e piccoli cinema di paese, dove la luce del proiettore irrompeva nel buio e il luogo chiuso e gli spazi stretti favorivano la concentrazione, il raccoglimento, come se vi si svolgesse un rito sacro.
Ma, a prescindere dalle preferenze personali, non pare proprio rispettoso della volontà altrui imporre a tutti la scelta di guardare un film, costringere un intero isolato ad assistere a una proiezione senza alcun consenso preventivo, fare dell’arte non un’espressione di libertà ma una forma di coercizione. Sì si potrà obiettare cinema all’aperto ce ne sono sempre stati, ma almeno erano situati in spazi isolati, lontani dal centro abitato, un po’ come capita ai drivein americani, cinema-parcheggio dove si guarda il film restando in auto.
Non come a Roma, nel quartiere Trastevere, la cui piazza S. Cosimato è ostaggio per due mesi all’anno del Cinema America, che proietta quotidianamente vecchi film, disturbando la quiete di chi vuole dormire o più semplicemente non vuole assistere al cinema coatto (nel senso di “obbligato”, non di “tamarro”). Un’insofferenza tale che la consigliera comunale grillina Gemma Guerrini, residente nei pressi, ha firmato insieme ad altri 21 abitanti della zona una petizione per fermare i rumori del cinema. Ed è stata sostenuta in questa battaglia anche dal vicesindaco Luca Bergamo che ha lasciato trapelare l’intenzione, a partire dalla prossima estate, di mettere a gara, con un regolare avviso pubblico, la rassegna di S. Cosimato (finora gestita dall’Associazione Cinema America, con il contributo di Regione Lazio, Mibact e sponsor privati), ripensandola con altri eventi, magari meno invasivi.
Non l’avessero mai fatto. Subito, a difesa del Cinema America, sono scesi in piazza fior fior di registi e attori (100 in tutto), da Paolo Sorrentino a Bernardo Bertolucci, da Gabriele Salvatores a Francesca Archibugi fino a Margherita Buy e Luca Zingaretti, tutti firmatari della petizione (ormai da qualche tempo artisti e attori italiani non fanno altro che firmare manifesti) che chiede le dimissioni del vicesindaco e della consigliera grillina.
La presa di posizione sorprende in primo luogo per il ruolo dei soggetti coinvolti. Professionisti del cinema come loro dovrebbero ben conoscere il patto del silenzio che lega lo spettatore a un film: chi sceglie di assistere a una pellicola lo fa in religioso silenzio, ma allo stesso tempo il cinema dovrebbe rispettare, e non invadere, il silenzio di chi quel film non vuole guardarlo né ascoltarlo.
C’è poi una questione di investimento economico: un conto è comprare consapevolmente il biglietto di un film, altro è contribuire con il proprio denaro a un evento che non si è scelto (il cartellone del Cinema America è infatti finanziato, in buona parte, con soldi pubblici). Da ultimo, c’è un’obiezione di natura simbolica: il cinema esibito in piazza appare un altro sintomo della decadenza di Roma. Una volta la Capitale era il set dove i film si giravano, non il porto franco dove i film si proiettavano. Il cinema restava pur sempre un bene da fruire in un luogo chiuso, separato, dove il tempo e lo spazio si sospendevano, proiettando il corpo e la mente in un’altra dimensione. Tutto questo si perde se il cinema si identifica col quotidiano e ne occupa gli spazi; il suo realismo si banalizza perché non racconta più la realtà, ma la colonizza. E il suo esercizio non è più evasione ma invadenza.
L’unico modo per salvare capre e cavoli, cioè accontentare residenti del quartiere e artisti, sarebbe proiettare pellicole ancora più vecchie di quelle oggi presentate nella piazza. Organizzare cioè una rassegna di Cinema Muto.