Libero, 16 febbraio 2018
La finanza islamica è sbarcata in Italia
Sta sbarcando anche in Italia la finanza islamica, ossia strutturata in modo da osservare precisi precetti del Corano, e a fare da ariete è un gruppo finanziario dell’Arabia Saudita che si ripromette di colmare alcuni vuoti lasciati da precedenti investimenti effettuati dal rivale Qatar nel nostro Paese. Si tratta del Saudi Al Salwiya Group, che da settimane, fin dal Business Forum tenutosi a Riad, ribadisce di voler aprire proprio a Milano una sede operativa da cui allargare la propria attività finanziaria in tutta Europa, avendo in mente come clientela proprio le folte comunità di immigrati originari dei Paesi musulmani.
Il gruppo Al Salwiya è nato nel 1977 come azienda di costruzioni e infrastrutture, che in seguito ha allargato le sue competenze anche agli investimenti. Ed è stato proprio il figlio del fondatore, Omar bin Faisal Al Salwiya, che dirige il settore aziendale deputato proprio all’espansione in Occidente, a presentare senza mezzi termini la strategia di espansione del gruppo saudita: «Ci sono sempre più musulmani in Europa, ma le istituzioni finanziarie islamiche sono colpevolmente assenti. Intendiamo inserirci nel mercato per coprire questa mancanza. Abbiamo scelto l’Italia per affinità culturali e perché le banche italiane, meno solide di quelle tedesche, inglesi e francesi, sono competitori più abbordabili». A parte la strana affermazione di «affinità culturali» fra un’Arabia Saudita custode dei luoghi santi dell’islam, nonché guidata dall’integralismo wahabita, e un’Italia storicamente culla del cattolicesimo, spicca come Al Salwiya abbia in altre parole ammesso che il nostro Paese è un po’ il «ventre molle» dell’Europa dal punto di vista economico. Insomma, la testa di ponte ideale.
Per ora si sa solo che il gruppo saudita avrebbe stanziato, per cominciare, 100 milioni di euro nell’operazione, trovando a Milano già una sede fisica, ancora non divulgata. Negli ambienti della finanza prevale per ora l’opinione che l’iniziativa sia un esperimento per sondare le possibilità della finanza islamica in Italia ed Europa e osservare le reazioni del mercato.
Di certo, la finanza islamica è decollata negli ultimi anni, complice l’espansione economica dei Paesi produttori di petrolio del Golfo Persico.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2003 il patrimonio globale delle banche islamiche si aggirava sui 200 miliardi di dollari, ma già nel 2016, in soli 14 anni, era quasi decuplicato, arrivando a 1900 miliardi di dollari.
E nei Paesi del Golfo aderenti al Consiglio di Cooperazione, guidato dai sauditi, ormai il 50% dei servizi bancari avviene secondo le modalità conformi alla sharia. Che sono, fra le principali, il prelievo obbligatorio di una decima del 2,5% annuo dai conti correnti, da destinare alla zakat, l’elemosina per i poveri, la limitazione degli investimenti con tasso d’interesse al credito al consumo o alle attività produttive delle aziende e, in particolare, un tipo di contratto, la Murabaha, con cui una banca anticipa i soldi a un’azienda per impieghi specifici come l’acquisto di materie prime o semilavorati.
In Italia c’è perfino una proposta di legge, avanzata dal deputato del Pd Maurizio Bernardo, che vorrebbe facilitare l’affermarsi di queste regole, ma dallo scorso anno giace ferma in Parlamento.