Il Messaggero, 19 febbraio 2018
L’epoca dei transatlantici
«Nella grande nave che a mezzanotte doveva salpare regnava la consueta agitazione dell’ultima ora. Gente del posto si accalcava per accompagnare gli amici, fattorini del telegrafo attraversavano i saloni scandendo nomi ad alta voce, si trascinavano valigie e mazzi di fiori, mentre l’orchestra suonava imperterrita», ricorda Stefan Zweig. Le partenze dei transatlantici, veri e propri grand hotel galleggianti, erano veri e propri eventi mondani. Sulla banchina fotografi e giornalisti si accalcavano per sorprendere le celebrità al momento dell’imbarco.
Sul ponte del Titanic, il più grande e lussuoso transatlantico dell’epoca, si vedevano passeggiare armoniosi levrieri afgani o azzimati barboncini. Nel Café Parisien o nel Fumoir, nei bagni turchi o in piscina, gli avventurieri si incrociavano con i miliardari. L’arredamento, un fastoso ritorno al passato culminante nello scalone Luigi XVI, sembrava quello di un castello riarredato da uno dei ricchi americani saliti sulla nave. La sala da pranzo di prima classe, in stile Giacomo I vantava tra le colonne dorate più di 500 posti a sedere e posate d’argento. La sala di lettura, in stile georgiano, era frequentata soprattutto dalle signore. Alla seconda spettavano modeste boiseries di legno.
Una suggestiva mostra aperta fino al 17 giugno, Ocean Liners; glamour, Speed and Style, ricostruisce la vita a bordo di queste cattedrali del lusso. Nelle immense sale del Victoria & Albert Museum, dipinti, sculture, modelli, mobili, lampade, pannelli murali, abiti, fotografie, poster e film testimoniano di un’epoca irripetibile che va dal 1897 al 1939, malgrado l’interruzione della prima guerra mondiale. Dal diadema di perle e diamanti di Lady Allan, sopravvissuto al naufragio del Lusitania, all’abito di Dior indossato da Marlene Dietrich fino ai servizi da tavola di di Christofle e di Lalique tutto doveva essere all’altezza di quella celebrazione del lusso e del progresso. Persino un iconoclasta come Marcel Duchamp si era fatto prendere da quell’atmosfera di festa senza fine. «Era assolutamente magnifico. Le luci erano tutte accese e danzavamo sul ponte ogni notte». Al ballo in maschera per festeggiare il passaggio dell’equatore, nel dicembre 1929, non ci furono dubbi: i vincitori erano le due celebrità della nave, Le Corbusier e Joséphine Baker, segretamente amanti malgrado la presenza del marito della danzatrice. Lui si era dipinto di nero e portava una cintura di piume come la Baker. Lei si era vestita da clown, imbiancandosi il viso. «Ci sono due Joséphine Baker: io e lui! È irresistibilimente buffo».
IMPONENTI BAULI
Nella mostra non mancano ovviamente gli imponenti bauli armadio, indispensabili per i tre cambi d’abito che scandivano la giornata. Le etichette colorate delle navi picchiettavano i cumuli di valigie di cuoio. Nel 1927 Lindbergh, il trasvolatore dell’Atlantico, era tornato in patria via mare su un piroscafo Cunard con solo due bauli porta-abiti di Vuitton, ma per Simenon e signora ne erano appena bastati trenta.
Un dandy come il compositore Maurice Ravel si era limitato a quattro ingombranti valigie più un baule. D’altronde come portare sessanta camicie, venti paia di scarpe, settantacinque cravatte e venticinque pigiami? Mentre un viaggiatore sobrio come Evelyn Waugh poteva contare su una dozzina di calzature, perfettamente lucidate dal personale di bordo. Inutile dire che i più ricchi si imbarcavano con i loro servitori personali. Anche se cani e gatti scortavano i loro padroni, Antoine de Saint-Exupéry, in viaggio con la mamma, non si era limitato alle scimmiette che di solito si portava dietro, ma si era imbarcato con un puma. Peccato che la belva, innervosita dalla detenzione, avesse ferito un inserviente, costringendo lo scrittore a rinunciare alla sua compagnia.
In quello spazio chiuso, le celebrità dovevano stare attente a contenere l’entusiasmo degli ammiratori. Lo imparò ben presto Charlie Chaplin quando venne riconosciuto da Jean Cocteau, inviato da Paris-Soir per raccontare ai suoi lettori un Giro del mondo in ottanta giorni, sulle orme di libro di Jules Verne. L’incontro tra i due veniva reso ancora più arduo dal fatto che entrambi non conoscevano la lingua dell’interlocutore. Meno male che Paulette Goddard, fresca sposa di Charlot, faceva da interprete. Malgrado l’entusiasmo di Cocteau «Parliamo senza il minimo sforzo. Che lingua è la nostra? È la lingua viva, la più viva di tutte, la lingua dei mimi, la lingua dei poeti, la lingua del cuore» Chaplin trovava stancante quell’adoratore che lo obbligava a mimare le scene dei suoi film. Allora si chiudeva a lungo in cabina, ma poi, sentendosi scortese, ne emergeva rassegnato.
Gli armatori curavano molto la pubblicità. A Evelyn Waugh, nel 1928, era stata offerta una traversata gratuita in cambio di una serie d’articoli elogiativi sulla Stella Polaris. «Il viaggio di piacere – scrisse – è un fenomeno degli ultimi vent’anni. Prima soltanto i ricchi padroni di uno yacht potevano permettersi di andare di porto in porto senza fretta».