il Giornale, 17 febbraio 2018
Parma capitale? Dell’ignoranza e del degrado
Martedì ero in una trattoria di Parma, anzi, in una degusteria, come stucchevolmente cominciano a chiamarsi questo tipo di locali, e mangiavo anolini in brodo, serviti nella scodella, e guardavo le fotografie di Giuseppe Verdi, incorniciate alle pareti, e ascoltavo le canzoni di Sanremo, diffuse ad alto volume dall’impianto.
Com’è potuta venire in mente al titolare una simile disarmonia, tale fragorosa stonatura? In quel posto non entrerò più perché esprime troppo bene lo sconfortante programma della mia città, sì, la capitale della cultura 2020: calpestare il proprio passato e però sfruttarlo per accalappiare i turisti. Che, essendo di bocca buonissima e di ignoranza grassissima, cascano nelle trappole dei peggiori ristoranti del centro che servono lasagne alla bolognese e melanzane alla parmigiana come se fossero specialità locali.
Se questa è cultura sono cultura anche le gondole di plastica made in China sulle bancarelle veneziane (in effetti Gillo Dorfles sul kitsch dei souvenir ci ha scritto addirittura un libro). Io, se permettete, ho idee diverse: per me cultura è il produrre cultura, non il dilapidare la cultura prodotta dai nostri avi. Appena ho saputo della proclamazione mi è venuta in mente una vecchia frase di James Joyce: «Roma fa pensare a un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna». Ovviamente, al posto di Roma, si può mettere il nome di una qualsivoglia città d’arte italiana: Parma compresa, compresissima. La cosa più bella dell’operazione «Capitale della Cultura» è il marchio disegnato da Franco Maria Ricci, massimo parmigiano vivente.
Ma è come dire che la cosa più bella del Teatro Regio è il lampadario. Anche lo slogan non è male: «La cultura batte il tempo». Purtroppo è falso, siccome il tempo ha battuto la cultura. Viviamo il tempo dell’invasione, a Parma come quasi ovunque, solo che qui fa più effetto perché gli africani hanno preso possesso proprio dei luoghi culturalmente cruciali. Se vuoi andare a vedere il monumento a Toscanini devi farti largo fra gli spacciatori. Se vuoi visitare il Teatro Farnese devi evitare di passare dal piazzale della Pace, toponimo che una volta aveva un significato e adesso un altro: Pace-indotta-dagli-stupefacenti.
Se arrivi in treno devi farlo prima del calar del sole, quando in piazzale Dalla Chiesa le bande di nigeriani, presenti h24, si fanno più minacciose. Se arrivi in macchina devi stare attento a non imboccare via Trento dove nere sentinelle, appostate ai crocicchi anche in pieno giorno, ti scruteranno per capire se sei un cliente o un credulone convinto che lo Stato controlli ancora il territorio. Io, se fossi il sindaco di una città ridotta in questo modo, di una città, lo ripeto perché è gravissimo, dove le persone perbene hanno paura di andare in stazione e sempre più spesso scelgono l’automobile, sarei disperato, ma Federico Pizzarotti ride sempre e adesso ride perfino più del solito perché questa faccenda della Capitale della Cultura lo ha trasformato nel classico gatto col topo in bocca.
Se ne vanterà da qui alla fine dei suoi giorni di aver battuto Bitonto. Perché, va detto pure questo, le altre concorrenti al titolo erano cittadine alquanto minori: non c’era bisogno del nostro piccolo Napoleone per battere Casale Monferrato. Inoltre il ruolo di capitale italiana della cultura non va confuso con quello di capitale europea della cultura che sta portando a Matera centinaia di milioni per nuove strade, restauri, grandi concerti, mostre. Tutto un altro impatto. L’anno scorso capitale italiana della cultura era Pistoia: se n’è accorto qualcuno?
Qualche soldo comunque arriverà, un monumento fatiscente, l’Ospedale Vecchio, forse verrà finalmente restaurato, ma soprattutto si parla di iniziative dall’inequivocabile sapore settantiano: portare la musica del Conservatorio nelle periferie, allestire spettacoli teatrali sulla memoria (scommetto una scodella di Lambrusco che si tratterà di Resistenza).
Insomma, nel vasto e vago programma, nei comunicati tripudianti, nelle dichiarazioni eccitate, si legge in controluce la vecchia ideologia assessorile e assistenziale della partecipazione, però riverniciata dall’abuso molto contemporaneo dell’inglese («open call», «creative driven») e degli aggettivi «multimediale» e «multiculturale». Quest’ultimo almeno è onesto, visto che Parma è la città del rapper di origini ghanesi Bello Figo, che ieri su Instagram ha scritto: «Tutti sanno ke un Sako Di Fighe Bianke Mi Dikono Sempre Amore mi sento Protetta Quando Ci Sei Tu!!». Altro che Giuseppe Verdi e il suo librettista Arrigo Boito, vecchi signori monoculturali... Che però vanno continuamente riesumati e strumentalizzati perché senza di loro, nel 2020, i teatri e i ristoranti chi li riempirebbe?