la Repubblica, 19 febbraio 2018
Se la Svizzera dice addio alla tv pubblica
La Svizzera è una Willensnation, una nazione fondata sulla volontà. La sua coesione e la sua stessa esistenza dipendono dal desiderio del suo popolo di difendere insieme gli interessi del paese.
La democrazia diretta che conferisce potere al popolo, di fatto rende ancora più acuta l’esigenza di una vicinanza dell’informazione. In questo contesto, la radio-televisione pubblica Ssr – con i suoi cinque canali televisivi e i diciassette radiofonici – costituisce un elemento centrale della coesione della Svizzera, con le sue quattro lingue diverse, con i suoi molteplici divari. Se il 4 marzo prossimo la popolazione approverà in un referendum l’iniziativa “No Billag” (che vieta ogni forma di finanziamento pubblico a emittenti tv e radio private e pubbliche) per sopprimere il canone radio-televisivo di 451 franchi svizzeri l’anno per nucleo familiare, non resterà che procedere alla chiusura della Ssr, che si troverebbe priva del 75 per cento delle sue entrate.
Il vuoto che si verrebbe a creare nel settore audiovisivo non resterebbe senza conseguenze. Le emittenti principali della Ssr, che detengono oltre il 50 per cento della fetta di mercato nelle fasce orarie dei massimi ascolti, partecipano direttamente all’intensità e alla qualità del nostro dibattito nazionale. La circolazione dell’informazione, infatti, è indispensabile per la buona salute dell’intero sistema.
All’origine del cambiamento, ci sono i partiti populisti che vanno guadagnando terreno in buona parte d’Europa. A priori, l’Udc, Unione democratica di centro, un partito patriottico, dovrebbe sostenere il fermento della nazione incarnato da una tv nazionale. Ma l’argomento unificatore non pesa granché rispetto alla profonda avversione nei confronti di una “televisione di Stato”, per forza di cose di sinistra e quindi di parte. L’Udc, come qualsiasi partito populista, sogna di rivolgersi all’opinione pubblica direttamente, senza filtri. La sua diffidenza si estende all’insieme degli organi di stampa che praticano un giornalismo professionale e reale. Quello che si sta cercando di fare è abbattere l’organo di controllo.
Che cosa accadrebbe se chi propone questa iniziativa dovesse averla vinta?
Costoro affermano che la Ssr potrebbe sopravvivere concentrandosi sulle trasmissioni essenziali, finanziate dalla pubblicità e dall’abbonamento ai canali pay- per- view. Ma questa è una cortina di fumo. La Ssr, la cui programmazione diverrebbe del tutto anemica, non avrebbe più nessuna possibilità di raccogliere dalla pubblicità anche solo il 25 per cento delle sue entrate attuali.
Oltre a ciò, sarebbero esposte al rischio di chiusura anche le radio e le televisioni locali che spesso dipendono per più del 50 per cento dalla redistribuzione di una parte dei 60 milioni di canone.
È grave, telespettatori? Resterebbe la stampa privata, no? Certo, ma le sue risorse pubblicitarie si assottigliano e da 18 mesi a questa parte il fenomeno della concentrazione/riduzione si è accelerato.
Fautrice della diversità mediatica, la Svizzera si sta impoverendo a vista d’occhio. A mano a mano che la campagna procede e che le discussioni si fanno arroventate, la prospettiva di una perdita democratica in caso di vittoria del “sì” diventa evidente. Scommettiamo, come indicano gli ultimi sondaggi, che la popolazione darà prova di saggezza e rifiuterà di risparmiare l’allettante cifra di 451 franchi l’anno?
Traduzione di Anna Bissanti