la Repubblica, 18 febbraio 2018
Intervista a Sergio Landucci
Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l’editore Laterza ed è stato ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi colpì allora e mi rimanda all’oggi con i “selvaggi”, sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre martoriate. Il paragone turba Sergio Landucci. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è stato allievo di Cesare Luporini, ha insegnato all’università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario nel 1968. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell’insegnamento e nel 2002 decisi per la pensione anticipata».
È stato così frustrante il lavoro universitario?
«Lo è stato certamente per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un “cane sciolto”. Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui si incistò dopo il ’68 la contestazione studentesca».
I punti di riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Eugenio Garin e Cesare Luporini.
«Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c’era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento».
Era lo spirito del tempo.
«Ne facevo parte anch’io, ma senza tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all’Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini».
Quali erano i vostri rapporti?
«Fu mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi affascinava quest’uomo che nel 1930 andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e seguì i corsi di Heidegger».Credo sia stato uno dei pochi italiani a frequentarne i seminari.
«C’è un episodio rivelatore del rapporto con Heidegger. Quando il filosofo tedesco pronunciò nel maggio del 1933 il famigerato discorso con cui si insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell’adesione al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lasciava Friburgo per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai corsi di Nicolai Hartmann. Il maestro lo liquidò con un ironico “tanti auguri”».
A proposito di filosofi si è spesso detto che il “Vecchio Lupo”, così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l’ultimo a sapere i dettagli dell’omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare?
«C’è innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller, ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali del 1938. Gentile aiutò Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e all’Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiamò Luporini alle due di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».
«Quando nel 1944 la situazione precipita. Luporini va a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli dice: professore c’è gente che non aspetta altro per ucciderla».
Gentile aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato nell’aprile del 1944. Si è detto che Luporini conoscesse i mandanti e gli esecutori dell’omicidio.
«Credo che il “Vecchio Lupo” non sapesse nulla, o almeno nulla di diretto. Ci fu una sua dichiarazione radiofonica in tal senso, ma credo fosse il frutto di un fraintendimento».La frase di Luporini era questa:”Cose che forse non si possono ancora dire”. Cosa le fa supporre che fosse frutto di equivoco?
«Il fatto che accreditasse la versione offerta da Teresa Mattei, partigiana, che sull’argomento ha cambiato più volte opinione. Fino a sostenere che dietro quell’omicidio ci fosse Ranuccio Bianchi Bandinelli. Mai uno straccio di prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di Gentile, che non aveva mai conosciuto. Poi c’è la testimonianza della moglie di Luporini: Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata».
Possibile che non ci fosse un grano di verità?
«La sola cosa che riesco a pensare è che Luporini era emotivamente coinvolto. Dopo l’attentato, Gentile fu trasportato moribondo all’ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiamò Luporini dicendogli se voleva vedere per l’ultima volta Gentile. E lui andò e vide il filosofo in fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella frase».
E lui?
«Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo».
Negli anni di Pisa chi frequentava?
«Tra le persone che hanno avuto un peso: Delio Cantimori e Sebastiano Timpanaro. Di quest’ultimo divenni grande amico».
So che Cantimori incuteva una certa paura per il modo di fare lezione e interrogare.
«A me, che non sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza».
Cosa pensa della sua vita ideologica piuttosto travagliata?
«Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall’idea che la storia sia guidata dal potere. Dopo il 1956 uscì dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso».
Cosa intende?
«Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia diceva: “Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per essere intelligenti?”. Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: “Le ha fatto bene stare lontano da Firenze”. Sì, rispose, ho evitato la noia».
Poi c’è Sebastiano Timpanaro.
«Era stato allievo di Giorgio Pasquali, ma invece di inseguire la carriera universitaria, divenne un outsider della cultura. Motivò la sua scelta con una certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per lo più senza rendersene conto».
Per lei il caso è stato così incisivo?
«Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati».
La sua famiglia com’era?
«Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista diceva chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l’asciugamano diceva passami il macramè. Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo fu mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio».
Dà l’impressione di un uomo provato dalla vita.
«Sono molto amareggiato dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare nei dettagli, ma ho l’impressione di essere stato irriso e torturato dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha consentito di vivere».
Non è vero, il suo libro sui “Filosofi e i selvaggi” è un grande libro.
«Non diciamo sciocchezze, troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Furio Diaz. Scriverlo, fu un’idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi appassionava Montaigne».
È il primo ad accorgersi della figura del selvaggio e a prenderne le difese.
«Non è il primo, ma in qualche modo rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni, non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che soffocano la civiltà occidentale».
È la scena che prevarrà?
«È solo una tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la violenza, il terrore che scuotono l’Europa delle guerre di religione e che culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la mitezza del selvaggio».
È una tesi che riprenderà Rousseau.
«Fino a un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze questa impostazione è Thomas Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne».
Hobbes parla di uno “stato di natura”.
«Dove tutti si fanno la guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L’immagine di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che nel Cinquecento vengono fatte dei selvaggi di America».
Si può dire che l’Occidente fin dall’antichità si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni?
«È passata l’idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica assimilazione».
Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino parlato di “uomo bianco” in pericolo di estinzione.
«Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto della vita politica, il delirio – come strumento patologico – rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna giustificazione al male né all’imbecillità. Ho scritto un libro contro la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta attanagliando l’Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi resta questa infelicità che è come un mood che sovrasta le mie parole che non so più maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: “Grandezza è ciò che noi non siamo”. Ho la sensazione che l’abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio ancora, dimenticata».