la Repubblica, 18 febbraio 2018
Nel nome del padre il primo degli Sgarbi
Una sera di gennaio, erano i giorni della epifania, quando una stanchezza greve toglieva a Nino il piacere di guardare persino i programmi di Rai Storia – di cui era appassionato – gli proposi di leggere insieme il racconto di uno scrittore, Ismail Kadare, La provocazione.
Un racconto di guerra, una guerra buzzatiana, di attesa e posizione, di non senso, più che di volontà e determinazione. Una guerra in Albania: dunque proprio dove – oltre alla Grecia – aveva combattuto mio padre. Gli annunciai: “Questo racconto parla di una esperienza che hai vissuto tu e non io. Se ti piace, lo pubblicherò, altrimenti niente da fare”.
Nino seguì la lettura con crescente interesse, “sentiva” quelle atmosfere, “vedeva” il manto bianco della neve che tutto copriva, il gelo e il ghiaccio costringevano alla immobilità i due eserciti nel racconto di Kadare.
Arrivai alle seguenti righe del racconto: “Non l’hanno presa,” disse il dottore. Io alzai le spalle. “Strana situazione,” continuò il dottore, “non è immaginabile una cosa del genere: una ragazza di strada, sdraiata in una barella, tra due stati. Che dobbiamo fare?”.
E a mio padre venne in mente le proprie pagine del suo ultimo libro. Me lo fece notare, mi chiese di rileggergliele: “Forse per questo ero partito per il corso ufficiali: speravo che qualcuno mi desse una missione. In tre anni di guerra non è mai successo. A meno che non si possa considerare missione il fatto di essere stato spedito da Missolungi a Tirana a cercare sigarette per tutta la compagnia. Quasi seicento chilometri, per i quali mi ci erano voluti quattro o cinque giorni: il viaggio più rocambolesco e assurdo di tutta la mia vita. Sigarette, sì: i tedeschi le avevano requisite tutte e non si riusciva a trovare una paglia in tutta la Grecia. A dirlo oggi, sembra ridicolo, me ne rendo conto. Ma allora una sigaretta poteva fare la differenza. Un grande differenza. La differenza tra tenere o mollare, resistere o soccombere, vivere o morire. In certi momenti Dio riesce a dar segno di sé nei modi più inimmaginabili. Chi ha visto quello che ho visto io, difficilmente può negare il fatto che le vie del Signore sono davvero infinite”.
Capii che aveva approvato il racconto. Si era specchiato nell’Albania di Kadare come fosse la propria. Vi era come tornato, negli ultimi giorni della sua presenza terrena. E la lettura e la scrittura, fatalmente, si erano corrisposte. Si era ritrovato nelle atmosfere del più giovane scrittore albanese (Kadare è del ’ 36, e mio padre, del ’ 21, avrebbe detto ironicamente: “l’è vecc”). Il racconto è stato pubblicato. Insomma, da sempre lettore, a novanta anni scrittore, a novantasette, da ultimo, Giuseppe Sgarbi, mio padre, si è fatto editore, specchiandosi in noi per vivere, un poco di più, in noi.
Testo di Vittorio Sgarbi
Iniziò, mio padre, con una indiretta ma solida passione per un artista fondato in una grande tradizione, Luigi Servolini. Colpiva la mia fantasia di ragazzo la specialissima tecnica, la xilografia, e tanto più a colori. Campagne coltivate, nature morte, avevano un sapore arcaico e classico, nella grande tradizione toscana. E poi c’era il Veneto, e propriamente il Cadore, nel primo artista conosciuto che colpì la mia fantasia nel suo corpo possente, pure ferito dalla ma-lattia: Augusto Murer, di Falcade, visitato nel suo studio da cui uscimmo con una potente Crocefissione e una Madonna con il bambino.
Erano gli anni Sessanta: e così l’arte entrò nel mio orizzonte, consolidandosi, negli anni del collegio, davanti alle geometriche litografie figurative, con vedute di Vicenza sul Bacchiglione, di Neri Pozza, nella casa del figlio del farmacista, Giustino Chemello, a Sandrigo, il paese dove è sepolto il fratello di Carlo Emilio Gadda.Arte, letteratura si intrecciarono fin da subito nella mia formazione e la passione si irrobustì con il magistero classico e insieme estroso di mio zio, Bruno Cavallini, che ci parlava di Ferrara e della pittura metafisica di De Chirico, di Dante, di Ariosto e di Masaccio, e di Mantegna, visto nella Basilica di San Zeno a Verona.
Mio padre recitava D’Annunzio. Un’infanzia e un’adolescenza popolate di parole. E intanto la casa mutava, con i primi dipinti dei maestri sopra ricordati, fra i mobili di Albini. E mia madre prefigurava il nesso fra l’arte e la moda con gli abiti di Emilio Pucci, i foulards di Ken Scott, le borse di Roberta di Camerino. Con questi orizzonti si forma la mia sensibilità che diventa poi una passione, fino all’incontro, quasi miracoloso, con il San Domenico di Nicolò dell’Arca nel 1984. Una scultura nella cui energia c’è la vita, capace di sostituire lo zio Bruno, morto in quello stesso anno. San Domenico pensa e parla, e racconta dell’uomo e del suo destino.