la Repubblica, 18 febbraio 2018
Lessico parlamentare l’altra faccia di Natalia Ginzburg
Troppe volte abbiamo letto o udito di donne violentate alle quali non era stata resa giustizia. Troppe volte abbiamo visto i processi per stupro concludersi in maniera infame e troppe volte, in questi processi, è trionfata una idea delittuosa dei rapporti tra donna e uomo”. La dichiarazione di voto della deputata Levi Baldini arriva al termine del dibattito sulla legge contro la violenza sessuale. È i1 5 marzo 1989. L’intervento è breve, asciutto. Eppure, le bastano pochi minuti per far risuonare nell’aula di Montecitorio una domanda inconsueta, radicale, emotiva. Una domanda da scrittrice, più che da parlamentare: “Come applicare e come formulare una legge su una zona della nostra esistenza che richiederebbe riserbo e silenzio?”. D’altra parte, la deputata Levi Baldini – entrata alla Camera con le elezioni politiche dell’estate 1983, nelle file della sinistra indipendente – è Natalia Ginzburg. Come avrebbe fatto in un suo saggio, con lo stesso tono preliminare di incertezza, di chi avanza per piccoli passi e per grandi domande (“Come può rimanere impunito un delitto contro la persona? Come può sottrarsi alle forze dell’ordine chi ha commesso uno stupro semplicemente perché la vittima ha deciso di non denunziarlo?”). Rivela di avere cambiato idea “cinquecento volte”; di essere arrivata alla conclusione che non si può chiedere troppo a una legge, “come se essa avesse la facoltà di rendere migliore e più limpida la società intera. In verità essa ha unicamente il potere di rendere migliore e più limpido un aspetto del codice; e non è poco!”. Prima di diventare l’onorevole Levi Baldini, la scrittrice Ginzburg fu a lungo indecisa. Lo racconta Sandra Petrignani ne La corsara (Neri Pozza), appassionato ritratto – un po’ biografia, un po’ romanzo dal vero – che ha dedicato all’autrice di Lessico famigliare. Nel tentativo di rendere evidente, più di quanto non fosse nella vulgata, il piglio combattivo, tenace, di un’intellettuale segnata dalla storia del Novecento come da una questione privata. Una come lei non poteva non vivere anche di “sdegno civile”, non poteva non avvertire un dovere di onestà pubblica e di impegno attivo. Chi l’ha detto che uno scrittore non possa fare (bene) politica?
Natalia stima Pertini, allora al Quirinale; si fida di Berlinguer e di Nilde Iotti, è amica di Stefano Rodotà e di Vittorio Foa. È Foa a incoraggiarla nella candidatura: “Proprio perché non capisci niente di politica accetta senza esitare”. Si può fare politica attiva “a livello poetico”, scommettendo sulla forza dell’immaginazione? Quando le fu chiesto di impegnarsi per il Pci, Natalia pensò che i panni di parlamentare non le somigliassero per niente. Ma pensò anche che la notorietà guadagnata avrebbe potuto contribuire al lavoro di un Partito (di cui non ha la tessera) in grado di rappresentare “tutti quelli che subiscono offese”; di essere una forza “di natura perplessa, dubitosa, pessimista e incerta”, senza per questo rinunciare a discutere di utopie. Parole che somigliano a un involontario autoritratto politico. Petrignani raccoglie testimonianze di compagni d’aula – tutti colpiti dalla dedizione al compito, dalla brevità degli interventi (“i più brevi mai registrati da uno stenografo in Parlamento”), dalla diversità del linguaggio adoperato. È proprio sul tema delle parole – le parole da usare in politica, sui giornali, nella vita – che Ginzburg fa uno dei ragionamenti più forti in veste di deputata. Aprile 1984, discussioni infinite sull’aumento dei prezzi. La scrittrice ritiene necessario un emendamento sul prezzo del pane, perché non subisca alcun aumento nel corso dell’anno, e si appella ai valori di un’Italia antica, agricola, contadina. A molti compagni di partito la visione “pasoliniana” appare fuori tempo massimo, ne contestano i presupposti su un piano ideologico. Ma il passaggio più interessante dell’intervento in aula è quello in cui – partendo dall’osservazione di un collega sull’oscurità dei decreti legge – Ginzburg fa un elogio della chiarezza. Contro l’opacità di un linguaggio “ricattatorio, intimidatorio” che nasconde la realtà, anziché rivelarla; il linguaggio tortuoso e contorto del potere: “Io credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere, almeno, intanto, l’oscurità del linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai”.
A distanza di anni, torna lo stesso aggettivo: “limpido”. C’entra la convinzione che stare in politica, fare politica non equivalga a compromettersi. C’entra un’idea dei rapporti umani che è già politica, è sempre politica. C’entrano le “grandi virtù” che, in un libro bellissimo del 1962, Ginzburg invitava a porre al cuore del sistema educativo. Scrittrice morale, mai moralista, dagli scranni di Montecitorio alza la posta in gioco; trova nelle singole occasioni di lavoro parlamentare un pretesto per allargare il campo. A volte, anche con virtuosa ingenuità. Se si discute di missione in Libano (novembre ’83), dice: “Non importa se altri paesi si armano, non importa se si armano le grandi potenze: noi restiamo disarmati”. Se si discute di P2 e massoneria, trova urgente affidare a un giornale – da scrittrice, da deputata – una riflessione astratta sull’onestà, che “non cerca vittorie” e “non vuole essere ammirata”: “Presta fede unicamente a sé stessa, e va dritta per la sua strada”.