la Repubblica, 18 febbraio 2018
«Così io, al soldo del cuoco di Putin riscrivevo la realtà»
Modi da bravo ragazzo, il ventiseienne Vitalij Bespalov non è il “troll” che ti aspetteresti. E difatti si è trovato solo per caso a far parte per qualche mese del manipolo di cybersoldati che, usando false identità, dissemina Internet di menzogne e veleno da un grigio edificio di San Pietroburgo al numero 55 di ulitsa Savushkina. È lì che ha sede la cosiddetta “fabbrica dei troll”, l’Agenzia di Ricerca su Internet, finita, insieme al suo artefice Evgenij Prigozhin, fedelissimo di Vladimir Putin, nel mirino dell’inchiesta di Robert Mueller sulle interferenze nella campagna presidenziale americana. «Sono contento che finalmente, negli Stati Uniti, siano stati fatti i nomi di chi orchestra quello che io chiamo “il carosello della menzogna”. Prima si dava la colpa genericamente ai “troll russi”. Il più delle volte sono solo giovani freschi di laurea allettati dai soldi facili», ci dice al telefono da San Pietroburgo.
Anche Vitalij era un neolaureato in Giornalismo quando, il 15 settembre 2014, ha iniziato a lavorare presso l’Agenzia. «Ero alla ricerca disperata di un impiego quando mi chiamarono per un colloquio come “content manager”. Appuntamento al 55 di Savushkina. La prima cosa che mi mise a disagio fu l’edificio. E poi i tornelli e le guardie in mimetica all’ingresso, mai visti in una redazione».
Dopo avergli fatto compilare un dettagliato questionario, Anna, la sua futura capa, gli chiede di riscrivere un articolo a scelta sull’Ucraina. Vitalij supera il test e viene assunto: stipendio mensile da 45mila rubli, 650 euro, il doppio della media. «Assumevano chiunque sapesse scrivere. Ora invece setacciano il tuo passato, ti sottopongono alla macchina della verità e ti fanno siglare un accordo di riservatezza. Non ho mai trovato un dipendente del “Dipartimento statunitense”: vengono pagati tanto da rispettare la segretezza o credono di fare la cosa giusta».
Ogni giorno Vitalij si presenta puntuale alle ore 9, pena una trattenuta dalla busta paga. Si ritrova nella sezione “Ucraina 2”.
«Dovevo riscrivere una ventina di articoli al giorno per vari siti d’informazione targati “.ua” così da sembrare ucraini. I pezzi dovevano essere fedeli al 70 percento ai testi originali, ma epurati: i combattenti filorussi del Donbass andavano chiamati “guerriglieri” e non “terroristi” o “separatisti”, Putin non andava nominato».
Vitalij lavorava al piano terra tra gli “Autori di notizie”. «Gli interni sembrano quelli di un ospedale: corridoi stretti sui cui si affacciano tante stanzette. Al primo piano c’era il Social Media Market, i cui lavoratori venivano chiamati “pittori” perché creavano anche i “meme” su Obama, Merkel, etc.
Per un po’ ho lavorato anche lì.
Avevo pile di schede telefoniche per registrare finte identità sui social. Al secondo piano c’erano i Blogger, al terzo i Commentatori.
Eravamo quasi tutti neolaureati tra i 20 e i 30 anni. C’era anche una minoranza di aperti sostenitori del governo che si sentiva in guerra con l’Occidente. Nessuno sapeva che cosa facesse l’altro, ma avevamo un compito comune: i blogger diventavano le fonti citate dagli autori di notizie poi promosse dal social media market e commentate dai troll. Allora il tema era il conflitto ucraino, ma ho riconosciuto gli stessi metodi durante la campagna elettorale americana e francese, come gli attacchi mirati contro Clinton e Macron».
Dopo tre mesi e mezzo, Vitalij si è licenziato. «L’atmosfera lì dentro era opprimente. Non ce la facevo più. Quando l’ho comunicato ad Anna, mi ha detto: “Che cosa c’è di male nello scrivere quello che vuole il Cremlino?”. Poi, indicando un edificio dall’altro lato della strada: “Lì fanno la stessa cosa al soldo degli americani”. Per quelli come Anna il mondo è binario: c’è chi è pagato dal Cremlino e chi da Washington».