la Repubblica, 17 febbraio 2018
Tags : Anno 1901. Personaggi maschili. Francia. Letteratura
L’uomo che visse dentro Jules e Jim
Strano destino quello di Henri-Pierre Roché. La pubblicazione, nel 1953, di Jules et Jim portava alla ribalta un debuttante di 74 anni. Nel 1956 un secondo romanzo, Deux Anglaises et le Continent confermava il singolare talento di uno scrittore vicino sia a Paul Morand per il suo cosmopolitismo, sia a Jean Giraudoux per la finezza delle analisi psicologiche, sia a Jean Paulhan per la qualità dello stile.
La trasposizione sul grande schermo di queste due opere da parte di François Truffaut gli diede fama postuma: Henri-Pierre Roché scompariva il 9 aprile 1959. Aveva schivato gli onori con la stessa discrezione con cui aveva vissuto. Si era eclissato con la medesima concisione che aveva applicato alle sue frasi. Chi si celava dietro questo scrittore dell’ultima ora, la cui opera è un ritardo in prosa tanto quanto il Grande Vetro di Duchamp è “un ritardo in vetro”, e che aspettò mezzo secolo prima di mettere nero su bianco i ricordi che risalivano ai suoi trent’anni? Certo con diversi pseudonimi aveva collaborato a riviste, pubblicato brevi saggi, firmato recensioni. Molti di questi scritti, oggi dispersi, andrebbero riscoperti e fanno di Henri-Pierre Roché uno spirito curioso e dai gusti raffinati. Ma la sua vera importanza è altrove: essere stato, in ogni istante della sua vita e attraverso ciascuna delle persone che furono sue amiche, un testimone raro dei grandi movimenti intellettuali del Novecento.
Studente a Sciences Politiques, ignora la carriera diplomatica che lo aspetta e parte per la Germania nel 1907. Da aprile a maggio di quell’anno si colloca un soggiorno a Monaco che sarà determinante per la sua vita. Lì incontra un giovane scrittore ebreo, Franz Hessel, che diventerà il Jules del suo romanzo, e le due eroine, Lucie e Gertrude.
Tornato a Parigi, per guadagnarsi da vivere diventerà, nel 1914, corrispondente di Le Temps.
Pratica la boxe, sport allora molto amato dagli intellettuali – specie di religione del coraggio (Nietzsche era molto letto) – di cui Tristan Bernard era il gran sacerdote. Sul ring, un giorno, incontra Braque. Frequenta anche, ma per poco tempo, l’Académie Julian. La sua passione per la pittura lo porta a collezionare più che a dipingere: prima Marie Laurencin di cui diviene l’amante, poi, poco dopo, Picasso. Sarà Roché a organizzare il primo incontro tra questi e Gertrude Stein. Nel frattempo – siamo nel 1910 – è diventato consulente occulto di uno dei maggiori collezionisti americani, John Quinn, che nel 1913 sarebbe diventato l’anima dell’Armory Show e il vero ambasciatore dell’arte moderna negli Stati Uniti. Fino alla morte di Quinn, nel 1925, Roché gli segnalerà quadri eccezionali o acquisterà per lui le opere più difficili, accompagnandolo nei suoi continui spostamenti tra Europa e Stati Uniti.
Nel 1916, dopo essere stato dichiarato «inadatto alla guerra di trincea», è inviato negli Stati Uniti – probabilmente grazie all’appoggio di John Quinn – per redigervi la traduzione del rapporto stilato dall’American Industrial Commission to France sulla situazione delle industrie francesi durante la guerra.
Sarebbe dovuto rimanervi 15 giorni; vi rimarrà tre anni, fino alla cessazione delle ostilità, essendo diventato ben presto attaché all’Alto Commissariato francese a Washington. Aveva 37 anni. Alla firma del trattato di pace rientra in Europa e riprende la sua vita errante sulle ali della fantasia. Diventa amico di uno scrittore russo di nome Semënov, e con lui percorre l’Italia dall’Adriatico a Napoli, a piedi e senza bagagli. Ma è sempre in Italia, questa volta in condizioni più comode, che accompagna John Quinn e la poetessa americana Jeanne Robert Forster. Poco prima della morte di Quinn, nel 1925, scopre, arrotolata e dimenticata nella cantina di Kahnweiler, La Bohémienne endormie del Doganiere Rousseau, che gli fa subito acquistare.
Poi c’è l’episodio forse immaginario del suo soggiorno in India. Per una decina d’anni, Roché diventa il consulente di un personaggio uscito direttamente dalle Mille e una notte, il Rajah di Indore. Man Ray ci ha lasciato di lui foto stupefacenti che verranno riscoperte successivamente, e Bernard Boutet de Monvel un impressionante ritratto che ancora non molto tempo fa era esposto a Parigi.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, troviamo Henri-Pierre Roché rifugiato a Dieulefit nella Drôme. Si mantiene dando lezioni di francese, di scacchi e… di ginnastica. Ha 61 anni.
Nel 1953, con la complicità di Jean Paulhan, esce Jules et Jim. Il romanzo ripercorre l’anno 1907, il soggiorno a Monaco e nella Foresta Nera. Nel 1956 è la volta di Les Deux Anglaises: incentrato sugli anni precedenti (dal 1901 al 1907) e su un soggiorno a Londra.
Le due opere sono autobiografiche, i personaggi appena mascherati: Claude e Jim sono l’alter ego di Henri-Pierre Roché. L’11 febbraio 1957 inizia un terzo romanzo, basato questa volta sul 1916 e sul soggiorno a New York: si tratta di Victor. La morte lascia il testo incompleto.
Se Roché ha atteso a lungo prima di fare della sua vita un romanzo, è perché la sua vita stessa era stata un romanzo. Ma è anche perché non aveva mai smesso di trascriverne tutti gli episodi, anche i più piccoli, e di edificare così, giorno dopo giorno, ciò che è destinato forse a diventare la sua opera più importante, se non la più singolare del secolo, una volta che si troverà il coraggio di pubblicarla. Un diario intimo: si tratta di circa 330 quadernetti e quaderni di scuola, riempiti con scrittura uniforme, che cominciano dall’ottobre 1901 e terminano il 7 aprile 1959, due giorni prima della morte. La maggior parte dei grandi uomini politici, artisti, scrittori del nostro secolo vi si trovano citati. Una lettura parallela di Victor e del diario del 1917 basta a mostrare il loro perfetto parallelismo.
Per ironia della sorte Roché somigliava fisicamente a Marcel Duchamp: alto, snello e secco, la fronte ampia. Nonostante avesse qualche anno in più, faceva parte di quella generazione arrivata a maturità con la Grande Guerra, che voleva “vivere velocemente”, perché la velocità era all’ordine del giorno.
Traduzione di Luca Lamberti