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 2018  febbraio 17 Sabato calendario

Così sono riuscito a toccare il cielo (di Michelangelo) con un dito

ROMA Sono salito in cima alla Sistina, ho toccato il cielo (di Michelangelo) con un dito e ho visto tutto quel che da lontano non si vede, dall’unghia irregolare di Dio ai pesci vivi nel Mar Rosso. Ma per non cadere nella retorica eviterò di usare parole come Perfezione e Maestà. Mi limito a dire che si vede troppo, un troppo che non diventa mai ingombro, percorrendo in quota, a bordo di un accrocco che somiglia a una Smart, la Cappella più bella del mondo. Imbragato dentro cinghie legate con un moschettone alla parete dell’elevatore che chiamano ragno ho dunque visto quel che vedono i restauratori: i peli delle barbe e i fili d’erba, i diademi che fermano le vesti e il grigio intonaco degli occhi, particolari come la geometria degli intagli delle chiavi di San Pietro, le sfumature del tratteggio in rilievo, i segni della divisone per “giornate” della pittura a buon fresco, gli ovali delle orecchie sin quasi al timpano, l’appiccicaticcio delle ascelle. E ovviamente le tracce del tempo che via via mi mostrava Eugenio Ercadi, il restauratore che mi ha consentito di stargli accanto per un po’, sul balconcino del ragno, mentre con carta giapponese e acqua distillata portava via i sali, gli aloni, la polvere, la farina della storia.
«Mi sono innamorato di Michelangelo da vicino» mi ha detto Eugenio mentre passava il pennello del restauro su altri restauri induriti, tinte per accumulo, strati di oscurità sovrapposti. «Prima amavo di più il Quattrocento: Botticelli, Piero della Francesca, Masaccio. E Michelangelo mi pareva... esagerato. Poi ho scoperto i dettagli invisibili e ho capito che Michelangelo dipingeva per sé: l’artista perfetto». Raccontato così, il Michelangelo invisibile al suo pubblico è la più bella illustrazione della teoria di Benjamin: «Nessuna poesia è per il lettore, nessun quadro per l’osservatore, nessuna sinfonia per l’ascoltatore».
Ma non bisogna credere che i restauratori siano uomini pacificati. Tra loro ci sono i cromofili ma anche i cromofobi.
«Oggi il restauro conserva e ripristina la Cappella del 1999 che trasformò la luminescenza in luce e accese i colori». Eugenio, che sta pulendo la Resurrezione di Hendrik van den Broeck, passa il pennello sul carbonato di calcio o sull’austerità? Porta via la sporcizia o l’ombra?
Tocchiamo col dito il quadratino scuro che è stato lasciato lì a testimoniare com’era il colorito della Cappella prima del Grande Restauro concluso appunto nel 1999. Gli chiedo: «Sei sicuro che con le velature degli anni non avete eliminato anche i bui e le opacità di Michelangelo?».
Sorride: «La Cappella è bellissima». Racconta Fabio Morresi, che restaura qui da 33 anni: «Sull’azzurro ha lavorato Colalucci da solo, anche la notte, con i lapislazzuli dell’Afghanistan». È lo stesso blu di Michelangelo? «Noi siamo convinti di sì».
Ha scritto Michel Pastoureau ( Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie): «Il blu, liquido e dolce, oggi piace a tutti e se ne può fare un uso smodato». Con la musica giusta, il cielo blu di Michelangelo conquisterebbe anche Broadway. E infatti il 15 marzo debutta a Roma Giudizio universale: un “musical tridimensionale” (e che sarà? lo racconta Il Venerdì di questa settimana) “epico e romantico” con l’assistenza, le immagini e la revisione scientifica dei Musei Vaticani: «E il blu di Michelangelo diventerà blues di Michelangelo» scherzano i restauratori.
Di sicuro dopo il Grande Restauro, più di venti milioni di persone all’anno percorrono il rettifilo di 700 metri (il Corviale a Roma è un chilometro) che arriva alla Cappella. E tutti entrano dalla piccola porta di soli 80 centimetri. Ciascuno emette un calore che va dai 70 ai 100 watt. Ogni corpo libera nell’aria 50 grammi d’acqua all’ora e sono ventiduemila i corpi che ogni giorno rimangono qui per quindici minuti ciascuno.
E ci sono i frammenti di pelle, capelli, particelle di stoffa, saliva, batteri.
Tutto viene monitorato e rilevato da novanta sensori che, collegati ad altri dispositivi, comunicano con un cervellone che governa l’umidità, asciuga le condense, mantiene la temperatura tra i 20 e i 25 gradi. Stanno lì, questi dispositivi, sulle pareti, mal celati tra i dipinti come nicchie di tenebra. Più sfacciate sono le griglie bianche per l’aerazione, ferro e plastica, fibre e polimeri, che ovviamente “sporcano” Michelangelo ben più delle impurità di pigmento, a partire dai 500 specialissimi led di luce rossa che vorrebbe riprodurre la torcia che sposò la tavolozza.
È il famoso junk space, lo spazio spazzatura, ma stavolta non in un aeroporto né ai grandi magazzini, ma sopra il Perugino e il Ghirlandaio.
Dietro la parete del Botticelli, che racconta la vita di Mosè, e dietro quella del Giudizio universale, nel 2014 sistemarono gli alloggiamenti di due impianti (l’uno subentra all’altro), veri diavoli della modernità che il Caronte non vede, grovigli di tubi e di fili che somigliano alle stive dei piroscafi e ai motori degli aerei, ma garantiscono la vita alla Cappella.
A queste macchine arrivano le foto che, scattate con ultravioletti e infrarossi, segnalano l’impurità del pigmento. Sono macchine che studiano e che decidono.
Poi, finalmente, arrivano i nostri: gli Indiana Jones del Vaticano, con ragno, imbragatura, pennello, laser, batteri pulitori, enzimi, pigmenti. Sono chimici, scienziati della fotografia, storici dell’arte: libri e manualità operaia, tutto il contrario dei teorici che non vanno in cantiere per non sporcarsi le scarpe, come prescriveva Leon Battista Alberti, grande intellettuale sì, ma di curia papale.
Sessantaquattro anni, «mi manca poco alla pensione», Eugenio è uno dei dieci Indiana Jones del Laboratorio di pittura che a turno, nell’orario di chiusura, si sono alternati nella Sistina in questo mese di manutenzione che ora finisce: «2000 euro al mese, ma non ci sono tasse in Vaticano».
Questo dei Musei Vaticani è un bel mondo di passione, di allegria e di lavoro a partire dall’ufficio stampa di Matteo Alessandrini, una specie di Bloomsbury, ma in grazia di Dio. In sei ore, perdendomi in gallerie e stanze che sembrano segrete, nei fondi e nei sottofondi della Città, sotto bassorilievi che mettono soggezione, e prendendo ascensori grandi quanto un monovano di Trastevere, ho ispezionato uffici dove le gerarchie non sembrano pesare, laboratori che sono officine, magazzini ordinati ma pienissimi.
Ebbene, non ho mai visto un prete, neppure di passaggio, qui non c’è il tramonto delle competenze, non c’è la cretinocrazia che avanza. È vero che siamo in una monarchia, ma questa è un’aristocrazia del lavoro che sempre meno proviene dalle grandi famiglie romane e sempre più premia i saperi tecnici e umanistici come nel caso della direttrice, Barbara Jatta, una bella signora elegante e titolatissima benché di nomina regio-papale.
Marito pediatra, tre figli, ha cominciato giovanissima alla Biblioteca apostolica, al gabinetto delle stampe, e discende da una famiglia di artisti e restauratori, da sempre vicina al Vaticano.
Oggi “governa” (anche) la Sistina che, da sotto, senza la folla, le file, i custodi e lo scandire dei turni, pare molto più piccola. Solo da lontano Giona e Davide, l’atletico Gesù e i famosi nudi muscolosi sembrano lasciare lo spazio e il tempo ed entrare di prepotenza nella vita. Da vicino e dall’alto è il contrario: siamo noi a salire in cielo e a metterci in volo sulla scopa per infilarci tra i dipinti come fossero nuvole e impadronirci di tutti i dettagli.
Impercettibili, pressoché invisibili, Eugenio vede deformazioni che forse sono solo inquietudini di Cristo: forse quel cedimento del colore sulla guancia e quel rigonfiamento sulla gamba sono solo brividi dell’arte che all’illusione del movimento, del calore e della vita aggiungono al dipinto la grazia di sembrare perituro.