il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2018
La Chiesa e la rivoluzione della conservazione
Oggi Camillo Ruini compie ottantasette anni. Ogni tanto l’anziano cardinale – che fu longevo presidente dei vescovi italiani – interviene per condannare l’irrilevanza dei cattolici in politica. Ruini ha attraversato (e assommato) vent’anni di potere: le spoglie della prima Repubblica, la discesa di Silvio Berlusconi, l’ascesa di Romano Prodi, finanche i prodromi del grillismo. Con la nomina di Gualtiero Bassetti – arcivescovo di Perugia, tenero di carattere e riformista di formazione – proprio sul trono che fu di Ruini, la Conferenza episcopale si è perfettamente allineata al pontificato di Francesco. Vuol dire che non esistono governi vicini o lontani per definizione o addirittura per ideologie, ma politiche che possono soddisfare la dottrina sociale della Chiesa. A un paio di settimane dal voto per il Parlamento, lo sguardo dei vescovi si posa sulle manovre del 5 marzo e non sui risultati del 4 marzo. Perché la Cei teme il vuoto (o il nulla) fra il mandato di Paolo Gentiloni e la complicata formazione del prossimo governo e teme, soprattutto, la prevalenza nelle urne del blocco di centrodestra a trazione leghista. Il cambiamento più rivoluzionario, confidano al Fatto autorevoli vescovi, sarebbe prolungare il presente nel futuro e non interrompere il lavoro di Gentiloni e di Marco Minnini, il ministro più apprezzato per la gestione dell’immigrazione.
I vescovi diffidano dai partiti che esaltano la “famiglia tradizionale” e combattono per il “presepe natalizio” e poi alimentano lo scontro fra italiani e stranieri, negano l’umana accoglienza e deridono Jorge Mario Bergoglio quando paragona Gesù ai profughi. Il cardinale Gualtiero Bassetti ha diluito l’evidente sfiducia nei leghisti nell’elaborata prolusione all’ultimo consiglio permanente: “Ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società. Immorale lanciare promesse che non si possono mantenere”.
Un tempo c’era sintonia, però, fra il centrodestra di Berlusconi e la Conferenza episcopale, adesso la Cei – che a qualche monsignore pare di “sinistra” – osserva l’ex Cavaliere con distacco perché lo considera l’abito dentro cui si nascondono le pulsioni leghiste e dell’estrema destra. All’ineffabile coalizione che va da Berlusconi a Salvini, la Cei preferisce i Cinque Stelle per un semplice motivo: non hanno connotazioni nette sugli argomenti sensibili per la Chiesa e, in campagna elettorale, sui migranti e l’Europa hanno assunto posizioni più morbide. Il voto che spaventa gli anonimi mercati finanziari e le fattucchiere vestite da analisti non impensierisce la Conferenza episcopale, non ostile alle larghe intese, se servono a escludere le istanze leghiste, e fiera sostenitrice di Gentiloni.
Non da sempre, ma dall’intensa estate 2017. Quando Minniti ha imposto il codice di condotta alle Organizzazioni non governative e Palazzo Chigi ha ripreso il controllo del Mediterraneo. Un pezzo di cattolici – importanti associazioni e il quotidiano Avvenire (dei vescovi) – hanno aspramente criticato Minniti. Per un tempo lungo, forse eccessivo, il Vaticano ha taciuto. Poi la segreteria di Stato ha avviato una trattativa con Palazzo Chigi che s’è conclusa a casa di monsignor Angelo Becciu, il sostituto per gli affari interni, con il colloquio fra Bergoglio e Gentiloni. Bassetti si è adeguato volentieri e pure Nunzio Galantino, il segretario generale, che all’inizio del pontificato fu spedito da Bergoglio in Cei per sorvegliare Angelo Bagnasco, allora presidente.
Al rientro dal viaggio in Colombia, in settembre, Francesco ha benedetto ufficialmente la linea di Minniti su Libia e migranti: “Un governo deve gestire tale problema con la virtù propria del governante, la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho. Secondo: non solo ricevere, ma integrare”. E sui campi libici: “Ho l’impressione che il governo italiano stia facendo di tutto – con lavori umanitari – per risolvere anche questioni che non può assumersi”, ha detto Bergoglio in versione postulatore della causa per san Minniti. Dopo qualche mese di rodaggio, la Conferenza episcopale e il governo italiano hanno “aperto” i corridoi umanitari. Il primo, a ridosso di Natale, ha portato 162 profughi libici all’aeroporto di Pratica di Mare. I vescovi hanno stanziato altri fondi dell’otto per mille per consentire ai migranti, non più costretti a rischiare la morte nel Mediterraneo (o almeno, non sempre), di vivere con dignità in strutture religiose. Che sia un compromesso modesto o l’unico rimedio (pragmatico) a una questione gigantesca, il modello Minniti sull’immigrazione funziona perché Minniti è ministro degli Interni e Gentiloni è un premier prudente. Il buon rapporto fra la Chiesa e lo Stato è sfruttato anche per circostanze diverse. Per esempio, due settimane fa, i vescovi con Libera di don Ciotti e il governo hanno firmato un protocollo – che la Cei finanzia con mezzo milione di euro in tre anni – per l’assistenza a donne e minori provenienti da famiglie della criminalità organizzata o vittime di violenza mafiosa.
E dopo Gentiloni, che accadrà? Il dubbio spaventa. In epoca renziana c’erano più contrasti col governo. E non soltanto perché – legittimamente – Renzi ha ottenuto l’approvazione delle unioni civili. Più banalmente, non è mai scattata l’empatia personale fra papa Francesco e il segretario dem né mai – oltre alla stretta cerchia di Bagnasco – Luca Lotti è riuscito a influenzare la Cei. Non si ricordano memorabili visite di Renzi da Bergoglio né proficui dialoghi fra palazzo Chigi e il governo vaticano di Pietro Parolin. Claudio De Vincenti coltivava i tradizionali contatti con Becciu e Parolin, ma le interferenze di Lotti con la Chiesa non giovavano all’autorevolezza del sottosegretario. Gentiloni non ha delegato a Maria Elena Boschi – erede di De Vicenti a Palazzo Chigi – neanche un dossier sul Vaticano. La scorsa settimana all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alla cerimonia per la ricorrenza dei Patti Lateranensi, c’era mezzo governo con in testa Gentiloni. E non c’era, però, la nostalgia di un’esperienza che sta per finire. I vescovi pregano per un Gentiloni bis.