Corriere della Sera, 19 febbraio 2018
Un’altra guerra nel 2018? L’incubo dello Stato ebraico è un «corridoio» da Teheran fino al Mediterraneo
Le chiamava «le medaglie che ti danno quando qualcosa va storto». Ne ha ricevute due al valore, la seconda dopo aver guidato i commando israeliani nella notte di Beirut – sbarcati dai gommoni, un gruppo di soldati travestiti da donna – per colpire le basi palestinesi, un raid ordinato nell’aprile del 1973 come rappresaglia alla strage durante le Olimpiadi di Monaco un anno prima.
È a una conferenza in memoria del generale Amnon Lipkin-Shahak – e di quel fronte nord mai pacificato – che all’inizio di gennaio Gadi Eisenkot ha divulgato le previsioni dello Stato Maggiore, lo sforzo da oracoli degli analisti dell’intelligence militare per rispondere a una domanda: Israele dovrà combattere (un’altra) guerra nel 2018? Le possibilità sono state valutate «quasi inesistenti», con un grosso «ma» rispetto all’anno precedente: la situazione è volatile e il rischio che degeneri è cresciuto.
Uno degli scenari delineati da Eisenkot – in quella che gli ufficiali definiscono «fase delle campagne tra i conflitti» – «è la reazione di una forza nemica a un’operazione israeliana per evitare il trasferimento di tecnologie militari agli avversari». È il caso dei raid – almeno un centinaio – compiuti in Siria per impedire il trasferimento di armamenti dagli iraniani ai miliziani libanesi di Hezbollah.
O la reazione israeliana a una mossa che potrebbe cambiare le regole del gioco e il peso della deterrenza reciproca: i gruppi paramilitari sciiti sponsorizzati da Teheran tentano di arroccarsi a pochi chilometri dalla frontiera e dalle alture del Golan; gli iraniani stanno per completare una delle basi che vogliono costruire in Siria, il segno visibile – e per Israele inaccettabile – che la loro presenza è permanente.
Più che dal cemento macinato per erigere le fortificazioni, l’intelligence israeliana è preoccupata dall’asfalto versato per disegnare attraverso vari deserti quello che viene chiamato «il corridoio»: un ponte via terra da Teheran fino a Beirut, dall’Iran attraverso l’Iraq, la Siria e il Libano fino al Mediterraneo. «La possibilità che i Guardiani della rivoluzione usino questa tratta – commenta Ephraim Kam dell’Institute for National Security Studies, legato all’università di Tel Aviv – rappresenta una provocazione ulteriore: può servire per rinforzare Hezbollah e può portare al deterioramento dello scontro con l’Iran».
James Mattis, il segretario alla Difesa americano, un paio di mesi fa ha assicurato che «il corridoio» per ora non è completato e il suo uso – spostamenti di miliziani sciiti da mandare in Siria per sostenere il regime di Bashar Assad – è per ora limitato. In ogni caso gli americani – come ha annunciato il segretario di Stato Rex Tillerson – hanno tra gli obiettivi in Medio Oriente «quello di distruggere il sogno iraniano di muoversi liberamente fino al Mediterraneo».
Questi proclami non bastano a rassicurare gli israeliani, perché – continua Kam nella sua analisi – «Donald Trump non sembra in grado di mantenere la promessa di limitare l’egemonia iraniana nella regione». Anche se – riconosce – «la presenza americana nel nord-est della Siria (da dove passerebbe il “corridoio”) contribuisce a ridurre la serietà della minaccia».
Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, potrebbe sentirsi lasciato solo nell’affrontare l’espansionismo degli ayatollah, che considera una questione esistenziale per il Paese. «A Monaco si renderà conto che le sue preoccupazioni non sono le stesse delle nazioni più potenti – scrive Shlomo Shamir sul quotidiano Maariv —, quello che Israele vede come pericolo imminente non inquieta la comunità internazionale».