La Lettura, 18 febbraio 2018
Il voto in Egitto? È la solita commedia. Intervista a Ala al-Aswany
Come è possibile continuare a chiamarle elezioni?», dice a «la Lettura» lo scrittore Ala al-Aswany a proposito del voto del 26-28 marzo che non potrà che riconfermare Abdel Fattah Al Sisi alla presidenza dell’Egitto. «Tutti quelli che hanno provato a candidarsi hanno avuto guai. L’ex premier Ahmed Shafiq è stato rapito negli Emirati, portato in Egitto, e il suo fascicolo con accuse per corruzione risalenti al 2012 è apparso sul tavolo di un giudice militare, pronto per essere usato contro di lui; a quel punto, s’è ritirato. Sami Anan (generale in pensione, ndr) è stato arrestato e incarcerato. Il socialista Khaled Ali, una persona di cui mi fido e che appoggiavo, non ha più voluto fare da paravento a un’elezione iniqua. A quel punto il regime si è trovato in difficoltà: serve sempre una comparsa... così hanno trovato questo personaggio ridicolo, Mousa Mostafa Mousa, fan di Al Sisi, che definisce il suo eroe. È in corsa contro il presidente ma assicura: “Se mai dovessi vincere, lascerò il posto ad Al Sisi”. Lo stesso accadde nel 2005 sotto Mubarak: si cercò e trovò un finto sfidante del presidente per recitare la solita commedia». Al-Aswany, dentista e scrittore di bestseller tra cui Palazzo Yacoubian e Chicago, editi in Italia da Feltrinelli e tradotti in più di trenta Paesi, sta per pubblicare altri due libri: Republic As If («Repubblica come se»), un romanzo ambientato durante la rivoluzione del 2011, che esce in questi giorni a Beirut (e nel nostro Paese entro fine anno); e il saggio The Dictatorship’s Syndrome («La sindrome della dittatura»). Dal 2014 ad al-Aswany è vietato apparire in tv in Egitto e scrivere sui giornali. «Le forze di sicurezza fanno pressione anche sulle case editrici: hanno tutte paura. Un editore aveva pagato l’anticipo ma si è ritirato, spiegando che non poteva affrontare le conseguenze della pubblicazione del mio romanzo. Ma io continuo a scrivere ogni giorno».
Gli egiziani hanno accettato Al Sisi?
«Il fatto che il popolo non reagisca non significa che accetti quel che succede. Oggi in Egitto c’è una repressione paragonabile solo a quella di Gamal Abdel Nasser. Conosco giovani in carcere per aver partecipato alla rivoluzione o per aver protestato l’anno scorso quando Al Sisi ha ceduto le isole di Tiran e Sanafir ai sauditi: cinque anni di carcere per uno striscione che diceva che quelle isole sono egiziane. Ogni minuto di protesta costa un anno di prigione; cinque anni se protesti per cinque minuti. Viviamo in una dittatura».
Entrambi i suoi nuovi libri riflettono sulla dittatura...
«L’idea del romanzo Repubblica come se è che tutto in una dittatura appare come se fosse vero, ma in realtà è falso. La sindrome della dittatura parte dal presupposto che i dittatori appaiono in momenti in cui la gente può accettarli – in Italia, in Germania, in Egitto – per ragioni diverse, per stanchezza, per paura, perché pensa che la proteggerà. Ho usato il mio background in medicina per analizzare la dittatura come una malattia: ragioni, incidenza, sintomi, complicazioni. Ogni dittatore è malato: sviluppa sintomi di paranoia, violenza, megalomania. Ma anche la gente che li appoggia non sta bene: milioni di individui in piedi ad ascoltare Mussolini, Hitler o Nasser... non erano stupidi, ma credevano che quei leader rappresentassero la nazione e che li avrebbero protetti. È questa la malattia. Ho fatto molte ricerche sui dittatori del XX secolo. La formula del loro potere consiste nel privare la gente di ogni libertà politica con la promessa di una vita migliore. Sotto Nasser, i poveri per la prima volta ebbero accesso gratuito alle università e all’assistenza sanitaria: la maggioranza degli egiziani accettò la repressione in cambio di questo. Un dittatore messicano, Porfirio Díaz, lo spiegò ai primi del Novecento: radunò i suoi ministri e si presentò con un tozzo di pane in una mano e un bastone nell’altra. Spiegò che tutti i messicani dovevano avere il pane, e per quelli che volevano di più c’era il bastone. Ma quello che succede adesso in Egitto è diverso: abbiamo solo il bastone, niente pane. I prezzi sono aumentati, la gente soffre, la classica formula della dittatura non funziona».
Però c’è stato un momento in cui Al Sisi era popolare.
«Noi egiziani abbiamo un profondo rispetto per l’esercito, ma questo non significa che rispettiamo i dittatori militari. Sì, Al Sisi era rispettato a un certo punto, non per la sua personalità ma in quanto rappresentante delle forze armate. Quel che è accaduto è che, con l’elezione di Mohammed Morsi nel 2012, abbiamo notato che stava trasformando lo Stato egiziano in uno Stato islamico. Aveva emanato un decreto che poneva le sue decisioni al di sopra della legge, e allora in milioni siamo scesi in strada per chiedere elezioni anticipate. Gli islamisti minacciavano violenze e spargimenti di sangue, perciò l’intervento dell’esercito il 30 giugno 2013 fu apprezzato da tutti; quel che accadde dopo no. Noi rivoluzionari volevamo che l’esercito preservasse lo Stato, come fece quello tunisino nel 2011. Non è successo: ci furono i massacri contro gli islamisti e chiunque chiedesse elezioni, e l’esercito ha preso il potere. L’Egitto non è come gli Stati del Golfo, è cosmopolita: è arabo e islamico da 15 secoli, ma è stato egiziano per 35 secoli. La gente temeva che gli islamisti avrebbero cambiato l’identità del Paese, che scoppiasse una guerra civile come in Siria o il caos come in Iraq, quindi molti all’inizio hanno appoggiato Al Sisi perché ristabilisse l’ordine e li proteggesse: le tipiche ragioni per cui i dittatori vengono accettati al potere».
Se la «formula» non funziona con Al Sisi, quanto può durare il suo potere?
«Gli egiziani sono imprevedibili. Io sono stato uno dei primi membri del movimento “Kifaya” (“Basta”, nato nel 2004, ndr). Alle proteste eravamo duecento, i passanti ci prendevano in giro, ci chiedevano cosa volessimo e quando rispondevamo “le dimissioni di Mubarak” scoppiavano a ridere. Poi all’improvviso, con la rivoluzione, milioni di persone si sono unite a noi. Nessuno avrebbe potuto prevederlo».
L’appoggio dell’esercito è fondamentale per Al Sisi. Il tentativo di candidarsi del generale Anan potrebbe essere un segnale che alcune fazioni lo stanno abbandonando?
«Nessuno sa quel che succede nell’esercito, è un ambiente impenetrabile».
Crede che ci sia un’alternativa tra l’esercito e gli islamisti al potere?
«La terza via è quella della rivoluzione: volevamo uno Stato laico, né religioso né militare. I Fratelli musulmani erano contrari alla rivoluzione, sono saltati a bordo solo quando erano sicuri che avrebbe avuto successo e poi l’hanno tradita, alleandosi con l’esercito, e questo è un ciclo che si ripete dal 1952, dai tempi di Nasser. Le dittature militari in Egitto usano sempre i Fratelli musulmani contro le forze democratiche, li mettono in prigione e poi si riconciliano, ancora una volta contro le forze democratiche. Il conflitto tra i Fratelli musulmani e Al Sisi non è ideologico, è una lotta di potere. Quello tra Al Sisi e la rivoluzione riguarda i princìpi: noi vogliamo la democrazia. Il problema con gli islamisti è che usano la democrazia per arrivare al potere, e poi non c’è più democrazia. Quel che sta accadendo con Erdogan in Turchia è esattamente ciò che pianificavano in Egitto, ma non ce l’hanno fatta. Esiste una vera contraddizione tra l’islam politico e la democrazia. Democrazia significa governo del popolo, ma l’islam politico si considera uno strumento per arrivare al governo di Dio. Non è possibile obiettare a ciò che Erdogan fa: tutti finiscono in prigione, accusati d’essere non contro di lui, ma contro l’islam. Religione più politica uguale fascismo, perché nessuna religione, musulmana o cristiana che sia, non è democratica».
Gli egiziani vogliono la democrazia?
«Tra i 10 e i 20 milioni, secondo la Cnn, hanno fatto la rivoluzione, e io penso che queste persone credano in una terza via tra esercito e islamisti. Ma non puoi chiedere a tutti di pensare al futuro: la gente è semplice, vuole un lavoro, un salario, crescere i figli».
I responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni saranno mai puniti?
«L’ho incontrato una volta, era un giovane brillante. Ci sono centinaia di rapporti sulle violazioni dei diritti umani in Egitto: nessuno può negarle, nemmeno Al Sisi. L’Italia è una democrazia e, se un suo cittadino viene ucciso in quel modo, dovrebbe fare tutti gli sforzi possibili per ottenere giustizia, al di là degli affari e di tutto il resto».
Quindi dipenderà dall’Italia.
«Di certo non dall’Egitto».