La Lettura, 18 febbraio 2018
Regnava Parigi: Milano la superò inventando il lusso per tutti
Una volta esisteva l’alta moda esclusiva, ed era solo a Parigi. La figura del sarto come creatore e personaggio mondano inizia fin da metà Ottocento, soprattutto con Charles F. Worth, emigrato inglese, tanto apprezzato da essere egli stesso a proporre abiti e modelli, invece di seguire le indicazioni delle sue ricche clienti. Insieme a lui, personalità come Jean Patou, Jeanne Lanvin, Coco Chanel e molti altri crearono nel tempo un esclusivo mondo dorato, fatto di abiti unici e su misura, sfilate negli atelier o in luoghi prestigiosi, prezzi da capogiro. La moda era un lusso per pochi e discriminava per definizione.
Anche in Italia esistevano molti artigiani abilissimi e originali, un po’ a Milano (famosa la sartoria Ventura), un po’ a Firenze (nota per la qualità delle lavorazioni artigianali) e soprattutto a Roma. Ma i modelli non avevano il fascino e l’immagine di quelli parigini, che godevano della luce riflessa della capitale indiscussa dell’arte e della cultura. Un film di Alessandro Blasetti del 1937, Contessa di Parma, prende in giro questa sudditanza esterofila, mostrando un ricco commendatore estasiato davanti agli abiti francesi che gli sfilano davanti, salvo fare di colpo una smorfia quando capisce che gli abiti in realtà sono fatti in Italia («Oh, mi pareva...»). Quello di Parigi sembrava un monopolio inattaccabile.
Tutto cambiò a partire dagli anni Settanta. La società italiana si stava trasformando velocemente, con i ceti medi in rapida ascesa, dal 32 per cento della popolazione nel 1961 al 52 per cento nel 1993. Il miracolo economico li aveva arricchiti, riempiendo le case di nuovi elettrodomestici (frigorifero, lavatrice, televisione), le tavole di alimenti costosi (carne, dolci, caffè) e le strade di automobili. Ma non di bei vestiti. La rivoluzione arrivò da un gruppo di imprenditori tessili e di giovani sarti, molti dei quali gravitavano intorno a Milano, che capirono che si era aperto un nuovo mercato. L’idea fu quella di disegnare modelli di stile moderno, usare gli ottimi tessuti prodotti in Italia da sempre, e fare confezionare i capi dalle industrie esistenti o dai mille laboratori sparsi nel territorio, in quelli che saranno presto noti come distretti industriali. Il risultato? Capi firmati di pregio e ottima fattura, moderni nello stile e nel taglio (dopotutto c’era appena stata la rivoluzione giovanile), a prezzi relativamente accessibili. La rivoluzione dello stilismo si era compiuta: la moda diventava un lusso accessibile. E fu un successo tutto italiano, che spiazzò persino i giganti francesi, accaparrandosi quote importanti di vendite all’estero, in particolare negli Stati Uniti, e cambiò le abitudini di spesa in Italia.
Le conseguenze di questa rivoluzione sono ben visibili anche oggi. L’abito non è visto tanto come uno status symbol da esibire, quanto come un elemento che fa parte di un proprio stile personale, un modo di comunicare con gli altri. Come sanno anche i tanti giovani che acquistano online e seguono i blog di moda. La moda è legata all’identità ed è ormai un consumo irrinunciabile.