La Lettura, 18 febbraio 2018
Lo scultore che stregò Hollywood
Scena prima, Sabrina, 1954, regia di Billy Wilder: nel suo ufficio con vista su New York, Humphrey Bogart, attempato rampollo di una ricca famiglia della West Coast, corteggia a colpi di cocktail Martini con ghiaccio una splendente Audrey Hepburn, sotto lo sguardo di un Piccolo cavaliere del 1947 di Marino Marini, che lo stesso regista aveva gentilmente concesso dalla sua collezione privata. Scena seconda, Provaci ancora Sam, 1972, regia di Herbert Ross: nelle sale del Museum of modern art di San Francisco, Woody Allen, critico cinematografico in crisi, sta per tentare un improbabile corteggiamento davanti a The guardians of the secret di Jackson Pollock, ma prima lancia uno sguardo stupito alla testa di Igor Stravinskij fusa in bronzo, sempre da Marino Marini, nel 1951.
Nel mezzo, c’è tutto il fascino che lo scultore pistoiese (1901-1980), a cui la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia dedica fino al primo maggio la retrospettiva curata da Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi con la collaborazione di Chiara Fabi, ha esercitato su una certa America: molto intellettuale, assai snob, in continua adorazione-ammirazione del Vecchio Continente e dell’Italia prima di tutto. A certificare ulteriormente questo legame strettissimo (un mix di suggestioni classiche e di erotismo elegante) ci sono poi le fotografie di Lee Miller in posa davanti ai Cavalieri di Marino scattate da Richard Avedon per «Vogue» negli anni Cinquanta. E, ancora una volta, un film: Indovina chi viene a cena di Stanley Kramer, anno 1967, dove praticamente tutte (o quasi) le sculture, da quelle esposte nella galleria che dirige Katherine Hepburn a quelle appoggiate sugli scaffali dello studio di Spencer Tracy, «sono modellate – spiegano i curatori – sull’estetica di Marino».
D’altra parte è proprio a New York che Marino, negli anni Cinquanta vive la sua stagione d’oro: grazie in particolare a Kurt Valentin, il mercante d’arte che lo introdurrà nello star system americano (cominciando da Billy Wilder). Un successo che porterà l’artista (a cui Firenze ha dedicato nel 1988 un museo nella ex Chiesa di San Pancrazio) a produrre migliaia di opere. Dal 1984, anno di costituzione del nucleo di esperti antifrode, la commissione scientifica della Fondazione Marino Marini di Pistoia (diretta da Maria Teresa Tosi) ne ha certificate e autenticate circa 1.100, mentre in trent’anni sono stati rilevati 762 disegni e tempere, 341 sculture, 115 dipinti di cui non si conosceva l’esistenza e che, in alcuni casi, sono letteralmente affiorati da un giacimento sommerso, tenuto nell’ombra dal trascorrere del tempo e dai passaggi di proprietà che si sono alternati.
Passioni visive, questo il titolo della mostra veneziana, non arriva alla Peggy Guggenheim per caso. L’Angelo della città è tra le opere simbolo della collezione della miliardaria (anche lei americana) che la volle collocare tra i cancelli che si affacciano sul Canal Grande, dove oggi ancora si trova. Peggy aveva acquistato il gesso dell’opera nel 1948 e sarà lo stesso scultore a trasformarlo in bronzo. «L’avevo comprato a Milano direttamente dall’artista – racconta Peggy nella sua autobiografia —. Veramente c’ero andata per prendere a prestito un’opera per la mostra di scultura, ma finii col comprare l’unica cosa disponibile: era una statua di un cavallo e di un cavaliere, quest’ultimo con le braccia aperte in estasi e per sottolineare ciò Marini aveva aggiunto un fallo in piena erezione. Ma quando l’aveva fatta fondere in bronzo, aveva fatto fare separatamente il fallo, in modo che potesse essere avvitato o svitato a piacimento. Quando arrivavano le suore per farsi benedire dal patriarca che, durante le feste particolari, passava davanti a casa mia su una barca a motore, staccavo il fallo del cavaliere e lo nascondevo in una cameretta. A Venezia si era diffusa la leggenda che avevo diversi falli di svariate misure, come parti di ricambio, che usavo a seconda delle occasioni».
L’intimità degli ambienti della collezione Peggy Guggenheim, seconda tappa della mostra dopo Palazzo Fabroni a Pistoia, «consente una inedita lettura, concentrata e ravvicinata», di più di cinquanta sculture di Marino Marini e di venti opere, dall’antichità al Novecento, dagli egizi agli etruschi, dalla scultura medievale a quella del Rinascimento e dell’Ottocento, da Arturo Martini a Giacomo Manzù, da Auguste Rodin a Henry Moore. E di fatto ogni sala mette in scena alcuni frammenti di questo dialogo amoroso. Si apre così con le teste e i busti degli esordi affiancati a canopi e teste etrusche, a una testa greco-arcaica proveniente da Selinunte, a un busto rinascimentale di Andrea Verrocchio e con la terracotta del Popolo di Marino (1929) messa a stretto confronto con il suo (evidente) modello etrusco, il Coperchio con defunto (in pietra fetida) dell’inizio del IV secolo. Mentre a chiudere il percorso ci sono i piccoli e grandi Guerrieri e le Figure coricate degli anni Cinquanta-Sessanta faccia a faccia con l’antica tradizione toscana di Giovanni Pisano e, insieme, con le soluzioni più sperimentali di Picasso ( Femme et chien jouant, fond bleu del 1953). Perché le Pomone (elogio di una bellezza femminile lontana dai canoni tradizionali) come i cavalieri, i pugili, i giocatori di Marino Marini sanno essere moderni (e molto sensuali) senza mai dimenticarsi del passato.