Corriere della Sera, 17 febbraio 2018
Mueller incrimina tredici russi. «Hanno inquinato il voto negli Usa»
WASHINGTON Una specie di «Spectre 2.0». Il Super procuratore Robert Mueller accusa tre società e 13 cittadini russi di «cospirazione» per aver seminato divisioni e caos nella politica americana. È il «Project Lakhta» avviato nel 2014 e culminato nelle elezioni presidenziali del 2016. Obiettivo: appoggiare la candidatura degli outsider, Donald Trump innanzitutto, ma anche il senatore democratico Bernie Sanders, attaccando principalmente Hillary Clinton e i senatori repubblicani Ted Cruz e Marco Rubio. I russi hanno avuto contatti anche con «rappresentanti» del comitato elettorale di Trump che erano, però,(e questo è l’aggettivo chiave in questa fase) «unwitting», inconsapevoli dell’identità dei loro interlocutori. Le interferenze russe non si sono spinte al punto da «alterare» il risultato dell’8 novembre 2016. Trump, quindi, non ha vinto perché gli hacker di Mosca hanno truccato le schede. Concetti ripetuti poi in una breve conferenza stampa dal vice ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, che ha precisato: l’inchiesta sul Russiagate va avanti. Per intanto, Trump, che finora non aveva mai riconosciuto pienamente le interferenze russe, va all’incasso con un tweet: «La Russia ha cominciato la sua campagna anti Usa nel 2014, molto prima che io annunciassi la mia candidatura. Nessun impatto sul risultato elettorale. Il comitato Trump non ha fatto nulla: nessuna collusione!». Mosca reagisce con un giudizio secco della portavoce del ministero degli esteri: «Tutte assurdità».
L’atto istruttorio di Mueller, 37 pagine, fissa, dunque, alcuni passaggi di grande importanza, ma non conclusivi.
Nella lista degli incriminati il personaggio più interessante è Eugeny Prigozhin, partito da un chiosco di hot-dog per diventare un boss del catering e uno degli oligarchi più vicini a Vladimir Putin. Prigozhin, con le sue società di San Pietroburgo, «Concord Management» e «Consulting e Concord Catering», versava 1,2 milioni di dollari al mese all’Internet Research Agency Organization, la piattaforma operativa delle manovre di disturbo, la «troll factory», la fabbrica dei provocatori via Internet.
Dall’inizio del 2014 gli specialisti russi si infiltrano nei social, costruiscono false identità riconducibili ad attivisti americani. A metà del 2016 la «fabbrica» gira a pieno regime. La «cospirazione» si muove su almeno tre livelli. Quello base: formazione di gruppi tematici in particolare su Facebook e Instagram per agitare e dividere l’opinione pubblica. Spuntano account come Secured Borders, confini messi in sicurezza, oppure United Muslims of America o Army of Jesus e così via. Iniziative condotte con abilità: i follower sono centinaia di migliaia.
Il secondo sviluppo è sul territorio. Gli agenti del «Project Lakhta» attraversano il Paese, dal Nevada al Michigan, dal Texas all’Illinois, cercando di raccogliere informazioni sulle aree dove la battaglia politica è in bilico, come in Virginia, Colorado e Florida.
Infine la sintesi, con la terza direttrice. Campagne di denigrazione e di odio contro i candidati espressione dell’establishment come Hillary Clinton e Marco Rubio o comunque d’ostacolo a Donald Trump, come Ted Cruz. Qualche esempio degli hashtag messi in circolazione: #TrumpTrain, #Trump2106, #Hillary4prison.
E siamo al punto 45 del documento, politicamente il più delicato: «Gli accusati usarono false identità per comunicare con inconsapevoli rappresentanti, volontari e sostenitori della campagna di Trump coinvolti nelle comunità locali, così come nei gruppi della base. … Gli accusati monitoravano la diffusione del loro materiale propagandistico attraverso questi canali». La conclusione di Mueller, dunque, è che «questi» 13 russi non abbiano stretto un patto esplicito con Trump per danneggiare Hillary Clinton.
Ma il Russiagate non è finito. C’è ancora molto da esplorare. A cominciare dai contatti tra Michael Flynn, Donald Jr Trump e altre figure riconducibili a Mosca.