L’Osservatore Romano, 17 febbraio 2018
Il Kosovo a dieci anni dall’indipendenza, luci e ombre
Il Kosovo celebra oggi, 17 febbraio, i dieci anni dalla proclamazione di indipendenza. Il paese ha progressivamente consolidato la sua struttura statale e istituzionale con un programma di riforme di respiro democratico, ha ribadito la sua prospettiva europea siglando l’Accordo di associazione e stabilizzazione con la Ue, ha aderito a varie organizzazioni internazionali e ha proseguito nel dialogo con Belgrado in vista di una auspicata piena normalizzazione dei rapporti. Restano tuttavia non pochi problemi e ostacoli che ancora impediscono al piccolo paese balcanico di affrancarsi del tutto dal controllo internazionale (sono sempre presenti le missioni Eulex, Kfor, Unmik) e fare il salto decisivo verso la piena sovranità e raggiungere l’obiettivo dichiarato dell’integrazione europea.
A tracciare un bilancio non solo di questi dieci anni di indipendenza del Kosovo, ma in generale della situazione politica e sociale dei Balcani è la Caritas, in un rapporto intitolato «Futuro minato». Il documento è il frutto della diffusione di questionari tra i giovani di Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, avvenuta nel periodo tra ottobre e dicembre 2017. I risultati confermano che gli effetti di lungo periodo del conflitto «devono farci mantenere alta la guardia e l’impegno a costruire percorsi di riconciliazione e rinnovare una cultura di pace».
La Caritas mette in rilievo soprattutto la complessa questione dello sminamento. «La presenza, o anche solo il sospetto della presenza, di ordigni impedisce il pieno godimento del diritto alla sicurezza, alla vita e alla salute delle popolazioni che convivono con situazioni di conflitto o che le hanno vissute e sono ora a dover affrontare l’eredità lasciata sui loro territori dalle guerre» afferma la Caritas, segnalando inoltre come «i programmi di sminamento in Kosovo e in Bosnia non sono ancora stati completati». La prova «che la memoria fisica della guerra continui a tormentare i Balcani è data anche dalla persistente presenza di vaste porzioni di territorio ancora contaminate da ordigni». Ciò è vero «soprattutto per la Bosnia, dove, nonostante le azioni di sminamento vedano coinvolte ben 26 organizzazioni, tra enti e strutture governative, organizzazioni internazionali e ong locali, l’obiettivo di completare la pulizia entro il 2019 sembra irrealistico».
Secondo Caritas, la lentezza delle operazioni «è dovuta principalmente all’inadeguata gestione da parte delle istituzioni, rappresentate, in questo settore, dal Bosnia and Herzegovina Mine action Center, responsabile dell’implementazione del programma di sminamento». Il suo macchinoso funzionamento interno «con un rappresentante ministeriale part-time per ciascuna delle tre comunità, unito allo scarso monitoraggio del lavoro, alla mancanza di fondi e soprattutto a gravi episodi di corruzione e abuso d’ufficio, contribuiscono all’inefficienza del sistema».
Durante le guerre balcaniche degli anni Novanta – ricorda ancora la Caritas – «mine e bombe a grappolo furono massicciamente impiegate, soprattutto in Bosnia ed Erzegovina e in Kosovo. Una larga parte di queste non sono state ancora rimosse, condizionando ancor oggi l’utilizzo di intere aree e provocando vittime e feriti». Papa Francesco, lo scorso 10 novembre, ricordò che «le armi di distruzione di massa altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana». Il monito del Pontefice, osserva la Caritas, «ci ricorda che in effetti gli ordigni moderni hanno tutti lo scopo di distruggere e colpire in maniera indistinta, non certo di mirare in maniera intelligente i soli obiettivi militari e di creare danni anche a lungo termine».