Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 18 Domenica calendario

Venezuela, Maduro sgancia la «bomba profughi»

«È il miglior investimento che puoi fare in Venezuela», dice Carlos mentre mette il fascio di banconote nelle mani dell’autista della “chiva”. Così si chiamano i fuoristrada semi- scassati che solcano in centinaia e centinaia, ogni giorno, la Troncal Caribe, via di collegamento tra Maracaibo e la regione colombiana de La Guajira. Un posto dentro la vettura costa 20mila bolivares, quasi la metà se si viaggia sul tetto, con la maglietta arrotolata sulla testa per proteggersi dal sole rovente. In ogni caso si tratta di pochi centesimi di euro: la moneta venezuelana è carta straccia sui mercati internazionali. Racimolarli, però, non è facile in una nazione dove lo stipendio medio è di 300mila bolivares e un chilo di farina ne costa 15mila al mercato nero, la sola forma di approvvigionamento di cibo e medicine. «Ma ne vale la pena. L’unica cosa da fare è andarsene». Carlos ha provato a resistere quando, un anno fa, i fratelli si sono messi in marcia per Argentina ed Ecuador. «Ora non ce la faccio più. Sono sieropositivo e gli antiretrovirali sono introvabili».
Sono tra i due e i 4,5 milioni i venezuelani costretti a una simile scelta, secondo vari centri di ricerca. Difficile una maggiore approssimazione dato che Caracas non diffonde i dati ufficiali. Nell’ultimo anno, la migrazione si è trasformata in un vero e proprio esodo. La maggior parte si riversa nei confinanti Colombia e Brasile. Pochi passano, però, per i valichi legali. Il resto si snoda per le “trochas”, le mulattiere dove non occorrono i documenti ma solo una tangente a chi controlla il transito.
Le “chivas” da Maracaibo scaricano i passeggeri all’imbocco dei viottoli sterrati, proprio alle spalle della dogana di Paraguachón. Impossibile per gli agenti di frontiera di entrambi i lati non notare il via vai. Quest’ultimo è esploso nell’ultima settimana. Da quando, cioè, Bogotà ha blindato con 3mila poliziotti il principale corridoio migratorio, i ponti Simón Bolívar e Francisco de Paula che collegano le città venezuelane di San Antonio e San Cristóbal con la colombiana Cúcuta. «Prima del giro di vite, nei giorni di “punta” arrivavano anche 45mila persone. Molti portavano qualcosa da vendere in modo da procurarsi i pesos per fare un po’ di spesa e poi tornavano indietro. Una parte, però, è rimasta. Solo in una delle nostre parrocchie, nel giro di due anni, si sono trasferite duemila famiglie», racconta padre Francesco Bortignon, missionario scalabriniano italiano impegnato nell’assistenza dei migranti a Cúcuta, dove gestisce alcuni centri in collaborazione con Terre des hommes. Il governo colombiano afferma che, nel 2017, i venezuelani residenti hanno raggiunto quota 550mila, il 62 per cento in più dell’anno precedente. Entro luglio, saranno più di un milione, con una spesa prevista per la prima assistenza di oltre 1,8 miliardi di dollari. Tanto che, martedì, il presidente Juan Manuel Santos ha chiesto aiuto internazionale per affrontare l’emergenza umanitaria. Anche il Brasile è preoccupato. A Boa Vista, capitale del Roraima, i venezuelani sono il 10 per cento della popolazione. «Si trasferiscono, in media, 40mila persone al mese», ha affermato Joe Millman, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che ha paragonato il flusso dal Venezuela a quello degli africani verso le coste italiane. La questione ha assunto, ormai, dimensioni continentali.
In Argentina, la richiesta di permessi di soggiorno è cresciuta del 142 per cento nel 2017. Negli Stati Uniti, le domande di asilo si sono moltiplicate di 37 volte in cinque anni. Per tale ragione, dal 31 gennaio, Washington ha imposto una serie di vincoli. La tentazione di chiudere le porte cresce in America. Anche perché se, prima, a trasferirsi dal Venezuela erano soprattutto professionisti scontenti del chavismo, ora sono lavoratori poco qualificati, minori, anziani, malati e donne incinte, per cui in patria è impossibile andare avanti. Il loro numero dovrebbe aumentare ancora dopo le presidenziali “addomesticate” del 22 aprile. In cui la vittoria di Nicolás Maduro appare scontata, tanto che il partito d’opposizione Voluntad Popular ha deciso di boicottare il voto. Gli Stati latinoamericani hanno, dunque, deciso di giocare la carta della pressione per ammorbidire il governo di Caracas. E, in concomitanza delle elezioni, stanno spingendo sull’acelleratore. Come dimostra la scelta dei vicini, Perù in primis, di ritirare l’invito a Maduro per il vertice delle Americhe in programma a Lima il 13 e 14 aprile. Il leader però, sembra “impermeabile”. «Ci andrò, che piova o tiri vento», ha tuonato.