La Stampa, 17 febbraio 2018
Intervista all’attore Marco D’Amore: Morire a Gomorra, scelta condivisa. E dopo Bolle in tv farei anche Sanremo
Un grande estimatore dell’ozio che fa? Vive. E si dà il caso che faccia vivere meglio gli altri. Marco D’Amore è così. Dispensatore di leggerezza. Diffida dei sempre attivi, sta con i suoi pensieri e ne gode. Sa divertirsi e nel fondo più profondo di se stesso cova l’anima di un conduttore televisivo. Sexy da svenire e pure colto, seppellito Ciro l’Immortale di gomorriana genesi, spazia. E in questo, il teatro, aiuta.
D’Amore, «American Buffalo» l’ha fatta scoprire sotto un’altra veste.
«Di solito io lavoro su testi di scrittura originale, il materiale già esistente mi lascia freddo. In David Mamet però ho colto la possibilità di affrontare certi temi e di poter passare una mano di lucido a un testo che data quarant’anni».
E allora l’ha tradotto in napoletano stretto?
«Passare per il linguaggio è stato basilare. Detesto le recitazioni finto americane, alla “Hey John” d’involontaria comicità. Mi serviva una lingua greve, proporzionata all’istinto dei personaggi raccontati. E il napoletano è la migliore del Novecento».
E poi che cosa è successo?
«Tante proposte, ma rispetto al teatro devo sentire una forte necessità e non un vago sentore di convenienza commerciale».
Oltre ogni convenienza pure il farsi fuori da «Gomorra», la serie prodotta da Sky che ha trionfato nel mondo. Una decisione coraggiosa che lei ha fatto seguire da una struggente preghiera laica su Facebook in cui invita i camorristi a pentirsi. Bizzarro saluto no?
«Il saluto non è di Marco che non ha da pentirsi ma del personaggio che non ce la fa più a vivere con quel peso e dunque compie un percorso di redenzione attraverso il dolore, fino a capire l’importanza del togliersi di mezzo. È una vertigine poetica che dice qualcosa».
Ha deciso lei «di togliersi di mezzo»?
«Non sarebbe elegante dirlo, è una scelta condivisa. L’importante non sono i protagonisti ma quello che si racconta e loro sull’orlo del baratro. Nonostante l’uscita sono uno strenuo difensore del progetto. E a quanti lamentano la mancanza di un personaggio positivo, io rispondo che sbagliano, c’è, è il pubblico che guarda e riflette su tanta violenza».
Che cos’è la bellezza per lei?
«Mi piace l’arte, quella che spacca. Notte stellata di Van Gogh o Munch de L’urlo. Ho le riproduzioni in camera. La bellezza va interpretata e capita. E non giudicata. Lo spettro censorio ha a che fare con l’oscurantismo».
La bellezza, sfrutto l’assist, è anche Bolle che balla in televisione avendo come interfaccia lei? Una bella iperbole.
«Plaudo alla lungimiranza di un artista senza paraocchi che ha voluto me per affiancare la sua immagine di grazia. E io ne ho approfittato a piene mani».
Occasione più unica che rara?
«Alle mie spalle c’è una storia e un percorso professionale più vicino a quel mondo che a Gomorra. Venti anni di teatro in lingua e tanto altro».
L’inizio a 17 anni, a Caserta dove è nato, giusto?
«Lì vicino. Un laboratorio con Toni Servillo e Andrea Renzi. Mi videro e mi fecero un provino cambiandomi la vita. Erano già pronti i documenti per l’iscrizione a Lettere e filosofia».
Invece?
«Sono partito con Pinocchio. Poi l’Accademia, fin da bambino suonavo e cantavo».
Un po’ come Pierfrancesco Favino a Sanremo?
«Ci avrei provato. Eccome. Ci avrei provato sì, al posto di Favino».
Non mi dica che dentro di lei alberga il cuore dell’intrattenitore televisivo! Lei condurrebbe uno show?
«Lo farei di corsa. Un programma d’intrattenimento è un grandissimo mezzo di comunicazione, ti apre un mondo in cui è possibile raccontare arte e vita in un modo che altri mezzi non consentono. E con che diffusione».
Complimenti per il tempismo. in Rai scarseggiano i conduttori puri, tanto che sono costretti a rivolgersi a cantanti, attori, ballerini e quant’altro. Fa bene a candidarsi.
«Mi sentirei più vicino al traghettatore che non al conduttore».
Sofismi. Magari le piace Pif. Sembrate affini.
«Moltissimo Pif è urticante, spazia e non si nasconde dietro al racconto, ci mette il suo. Purtroppo fino ad oggi ci siamo solo sfiorati».
Lei è uno dei pochi attori che pervicacemente risiede in provincia, a Caserta. Perché?
«È il Servillo-pensiero che mi è entrato nel cervello. Si vive lì circondati da affetto e familiarità. Via dalla città tentacolare. Si fanno i conti con i propri problemi e mi piace».
Daniela che dice?
«Daniela, la mia fidanzata, è contenta quando sono a casa. Abbiamo trovato un nostro equilibrio, lei ha studiato, lavora con successo. Mi piace che non aspetti me. Ci aspettiamo alla pari».
Figli no? Non ci pensa mai?
«Ci penso tutti i giorni. Tutti i giorni».
Se le ricordo Cecio della serie tv «Benvenuti a tavola» che prova?
«Orgoglio. Contribuì a superare certi pregiudizi in tv. Coincise con l’esordio televisivo di Bentivoglio e di Tirabassi, una bellissima esperienza di rapporti umani. Sono proprio quelli che mi fanno decidere di accettare un ruolo. Non mi interessa misurarmi su chi è più bravo».
Mi parla di «Drive Me Home»?
«Travagliatissimo film. Mi ci sono speso appieno, la ricerca del compagno di scena è stata complicata fino a che la buona sorte mi ha fatto incontrare Vinicio Marchioni. La storia che raccontiamo ha coinciso con la nostra amicizia e si è conclusa, sul set e fuori, con una separazione altrettanto dolorosa. Abbiamo confuso il piano personale e artistico. Un’esperienza selvaggia questo road movie, spero che trovi un suo sbocco festivaliero».
Malato del Napoli?
«Sempre».
È un uomo allegro?
«Direi fortunato, vivo bene di quello che amo. I più si faticano la vita. Perciò mi impongo di essere allegro».