17 febbraio 2018
APPUNTI SU GENTILONI PER GAZZETTA
MARIO AJELLO, ILMESSAGGERO.IT –
Non un endorsement. Di più. Nel teatro di Bologna, Romano Prodi e Paolo Gentiloni sembrano gemelli. Sia pure di età diversa. E l’ex premier, prima di salire sul palcoscenico, dice: «Se dopo nove anni, ora per la prima volta torno su un palco politico, e lo faccio con Gentiloni, vorrà pur dire qualcosa, no?». Ma certo. »Gentiloni è l’uomo giusto per guidare anche il prossimo governo. E il premier giusto per dare all’Italia stabilità e forza. Anche a livello internazionale». Renzi non viene mai citato in questa kermesse della lista ulivista Insieme, alleata del Pd, e non ne fa menzione Prodi e neppure Gentiloni. «Sto con lui»", dice il gemello Romano del gemello Paolo. E i due sul palco, tra un abbraccio e l’altro, si somigliano anche nei temi e nelle parole che scelgono: Europa, crescita, welfare. «La prima cosa da fare nella prossima legislatura», osserva poi, uscendo dalla sala Prodi, «è una legge elettorale che dia la vittoria vera e la possibilità di un governo forte, come in Francia, a chi vince. Mi sembra che anche Gentiloni sia d’accordo». Prodi, che il 4 marzo voterà Insieme, guidata dal suo amico ulivista ed ex ministro Giulio Santagata, spera di vedere ancora a Palazzo Chigi «la serietà al governo». Era lo slogan che il Prof aveva comitato per sé, a suo tempo, e ora lo regala, con molto piacere, a Paolo il Calmo.
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FORMICHE.NET –
Romano Prodi torna al centro della scena politica del centrodestra. Lo ha fatto partecipando all’iniziativa promossa da Insieme (la lista promossa da Santagata e Nencini ed alleata del Pd) nella sua Bologna.
“C’è una certa commozione”, ha detto spiegando di tornare in una assemblea politica dopo quasi nove anni. Queste elezioni non sono un appuntamento facile per il centrosinistra e il già due volte premier e “inventore” dell’Ulivo non ha voluto mancare l’occasione per sostenere la coalizione ma anche per mandare alcuni messaggi, neanche troppo cifrati. Anzitutto l’endorsement a favore di Gentiloni, anche fisicamente al suo fianco.
È l’attuale titolare di Palazzo Chigi la persona che secondo Prodi incarna meglio la continuità con le esperienze migliori del centrosinistra. Anche le parole che il professore bolognese sceglie sono importanti. “L’ultima fase di governo mi sembra particolarmente positiva rispetto a dove eravamo arrivati”. Se è facile comprendere il riferimento a chi c’era prima di Gentiloni, la chiosa successiva non lascia alcun dubbio. “Si è capito che questo è un Paese che ha bisogno di essere guidato e non comandato”. Ogni riferimento a Renzi appare puramente voluto (è riuscito). Guardando al 5 marzo Prodi è risoluto nell’indicare la necessità di “ricreare, ricostruire una democrazia efficace”.
Per questo serve anche una nuova “legge elettorale, che dovrebbe essere fatta subito, all’inizio della legislatura”. Quella che viene indicato come un suggerimento potrebbe in realtà rivelarsi una necessità, tanto più se non emergerà dopo il voto una maggioranza parlamentare chiara, e stabile. L’unico a poter concorrere per la vittoria è Berlusconi anche grazie ai “cari amici della scissione”.
Agli ex compagni di viaggio come Bersani, non le manda a dire. “Nei giorni scorsi mi sono pronunciato in modo sfavorevole verso gli amici della scissione, amici cari ma che hanno indebolito fortemente questo disegno. È così importante che la coalizione di centrosinistra sia unita. Serve un contributo plurale per vittoria comune”. Se si perderà, la responsabilità avrà anche i loro volti.
Infine, ma non per ultimo, l’agenda di quel centrosinistra di governo che sta tanto a cuore a Prodi (e Gentiloni). “Avrei gradito un programma per raddrizzare il Paese, non per cercare di prendere i voti di qualche categoria con qualche esenzione fiscale”, punge l’ex premier. Che stronca quelle che definisce “elemosine collettive: si ha l’idea della debolezza e della fragilità. La grande politica va all’attacco sicura e fiduciosa”.
Quanto alla Flat tax, cavallo di battaglia del programma del centrodestra, “quando viene proposta viene proposto un modello di società mascherato: attenzione, le disparità aumenteranno come sta accadendo in America con la ‘intelligentissima’ riforma di Trump”.
Alla fine, a vederli insieme, Prodi e Gentiloni – così come ieri Calenda e Rutelli (sempre accanto al premier) - le difficoltà del centrosinistra sembrano svanire in un ragionamento che mostra una bussola chiara, semplice e comunicabile. Nel mezzo però c’è quel convitato di pietra che quasi nessuno vuole citare o prendere di petto ma che dopo aver portato il Pd al 40% ed essere stato incoronato imperatore oggi appare come la principale ragione di insuccesso della coalizione. Cose che capitano. Soprattutto a sinistra.
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MONICA GUERZONI, CORRIRE DELLA SERA 17/2 –
Se l’Italia chiama, Paolo Gentiloni c’è. A due settimane dalla scadenza del suo mandato il presidente del Consiglio cambia passo e si propone, pur con le sue caratteriali cautele, per un possibile «bis». Da Berlino a Roma, tra vertici internazionali e momenti di campagna elettorale romana, dispensa serenità e ottimismo, ma mostra anche un lato più aggressivo. Attacca M5S, Salvini, Meloni e i populisti, che «fanno promesse irrealistiche e funamboliche». E, con il suo stile soft, si pone tra coloro che ambiscono a guidare un esecutivo che salvi il Paese dallo stallo.
«Se l’Italia chiama deve esserci un governo capace e io farò il mio dovere, come sempre in questi anni», risponde a chi gli chiede se sia pronto a un nuovo impegno a Palazzo Chigi. D’altronde questo anno da presidente ha visto «tantissimi disastri», ma anche grandi soddisfazioni. Il giorno più bello? «Tutti i giorni».
Il premier pubblicamente rassicura. Ma poiché teme la vittoria di forze populiste che potrebbero far deragliare il treno delle riforme, fa capire che se ci fosse ancora bisogno di lui non si tirerebbe indietro. Il patto con Renzi, il quale non rinuncia alla suggestione di poter tornare a Palazzo Chigi come leader del gruppo parlamentare più grande, non gli consente di spingersi oltre. Eppure in tv su La7, quando Lilli Gruber e Paolo Mieli insistono nel chiedergli se il candidato premier sia sempre il segretario Renzi, a norma di statuto del Pd, l’intervistato lascia tutte le strade aperte: «Non c’è un candidato premier...». Chi dovrebbe guidare un eventuale governo che avesse il centrosinistra come pilastro? «Noi lavoriamo per avere un premier del Pd, il nome si vedrà dopo».
Lo sforzo di Gentiloni per fugare il sospetto di lavorare per se stesso, oltre che per la squadra del Pd, è evidente. Ma la fiducia degli italiani nei suoi confronti continua a crescere e il premier, se messo alle strette, ammette di «avercela messa tutta» per non deludere gli italiani. Se Gentiloni il modesto si ferma qui, il filo del discorso lo riprende Carlo Calenda dal palco dell’iniziativa «Roma per Gentiloni», dove definisce il capo del governo «un grandissimo asset perché sa affrontare problemi complessi senza farlo passare per una questione muscolare tra lui e il Paese». Un colpetto a Renzi, da parte del ministro che più gioca di sponda con il premier?
Gentiloni smentisce ruoli da centravanti e assicura che i rapporti con Renzi «sono ottimi, nonostante non siamo due gocce d’acqua». I due leader terranno insieme una iniziativa elettorale «a sorpresa», con ogni probabilità il corteo antifascista del 24 febbraio. Prova che tra loro non c’è «nessuna tensione», come assicurano i comunicatori del Nazareno e di Palazzo Chigi, che accreditano un «paso doble» tra i due leader: Renzi che dispensa orgoglio dem e Gentiloni che gira l’Italia per «pubblicizzare» la coalizione di centrosinistra.
Le intenzioni di voto disegnano un quadro a tinte fosche per i dem, eppure Gentiloni invita a non considerare il voto un passaggio scontato, perché «ci potrebbero essere sorprese nel risultato elettorale». E se dietro le quinte si lavora alle larghe intese, lui si tira fuori e tiene coperti i ragionamenti su trattative e alleanze. Marco Minniti si è davvero smarcato dalla linea di Matteo Renzi? Il premier è convinto di no, perché «da ministro dell’Interno ha parlato di governo di unità nazionale» e non di larghe intese. E se Berlusconi lo loda ed è pronto ad affidargli un governo di transizione, Gentiloni si limita ad augurargli «ogni bene dal punto di vista della forma».
Oggi il premier sarà a Bologna per dare slancio alla lista di ispirazione ulivista, che riunisce i civici di Giulio Santagata, i verdi di Angelo Bonelli e i socialisti di Riccardo Nencini. Sul palco ci sarà Romano Prodi, il padre nobile del centrosinistra. E gli organizzatori sperano che la foto opportunity bolognese riesca a dare una scossa ai delusi del Pd, tentati dai 5 Stelle o dall’astensione. Salvo sorprese, il professore scioglierà la riserva e annuncerà ufficialmente dove batte il suo cuore. «Prodi verrà a dire che vota per noi di Insieme — conferma le aspettative Nencini —. Spero che lo dica, sarebbe utile e bello». Anche Santagata si aspetta il grande annuncio: «Io me lo auguro». E Gentiloni ieri ha fatto il pieno di applausi tra i dem romani, nostalgici di Francesco Rutelli al Campidoglio.
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LASTAMPA.IT –
Il sogno dell’Ulivo non è tramontato. Il progetto di tenere unite tutte le anime riformiste (anche quelle che hanno preso strade diverse) deve rimanere inalterato. E ogni mezzo per portare voti alla coalizione deve essere sfruttato. Nella sua Bologna Romano Prodi, dopo un’assenza durata nove anni, torna a parlare in un’assemblea politica per rilanciare il suo pensiero: la coalizione di centrosinistra deve essere forte perché «questo - dice - è il momento in cui si decide il futuro del Paese». L’ex presidente del consiglio partecipa al lancio di Insieme, la lista coalizzata con il Partito democratico formata dal Partito socialista di Riccardo Nencini, dai Verdi di Angelo Bonelli e da Area civica di Giulio Santagata (prodiano di ferro). Un raggruppamento che porta avanti, sostiene, «la logica che era il mio sogno, quello di mettere insieme i diversi riformisti».
Una dichiarazione di voto che, se può essere letta come una presa di distanza dal Partito democratico di Renzi, lancia anche la volata a un movimento che porterà comunque consensi a largo del Nazareno. I voti a Insieme - secondo le regole del Rosatellum - confluiranno infatti al Pd se supereranno la soglia dell’1%, altrimenti andranno dispersi. La `discesa in campo´ di Prodi sarà dunque utile sia per Insieme (se arriverà al 3% suoi candidati potranno accedere in Parlamento) che per la coalizione, e anche per rinsaldare quel concetto di unità tanto caro all’ex presidente del Consiglio che non dimentica neppure la piaga dell’astensionismo, ago della bilancia per il voto del 4 marzo. «Sono qui perché ritengo queste elezioni di una importanza particolare con questo allontanamento dei cittadini dai partiti», ammette infatti dal palco.
Prodi elogia Gentiloni: «Rappresenta la serietà al governo»
All’appuntamento di Bologna partecipa anche Paolo Gentiloni al quale Prodi esprime affetto e stima. Ricordando lo slogan della campagna elettorale del 2006 (`La serietà al governo´), il Professore elogia il premier: «Paolo sta rappresentando questo obiettivo: la serietà al governo, lo voglio ringraziare per il lavoro che sta facendo in un momento difficile, in cui abbiamo bisogno di mostrare un Paese sereno, con idee chiare, che riconosce i propri limiti e i propri meriti in Europa».
Prodi si rivolge anche agli «amici che sbagliano». Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, confluiti in Liberi e uguali dopo l’addio al Pd. E con parole che suonano come un ennesimo appello (magari con lo sguardo rivolto a dopo il voto del 4 marzo) ribadisce: «Nei giorni scorsi mi sono pronunciato in modo sfavorevole verso gli amici della scissione, amici cari, ma che hanno indebolito fortemente questo disegno. È importante che la coalizione di centrosinistra sia unita. Serve un contributo plurale per la vittoria comune».
Gentiloni: “Gli slogan dell’Ulivo sono ancora il tessuto del centrosinistra”
«Noi siamo nati come Ulivo sotto leadership di Romano Prodi, per andare al governo. Quella resta la nostra ispirazione, il nostro impegno, anche dopo vent’anni. Quegli slogan che ogni tanto venivano da un professore di Sassari (Arturo Parisi, ndr), “uniti per unire”, se li andate a riguardare sono tuttora il tessuto della coalizione del centrosinistra a guida Pd che oggi si presenta alle elezioni». Ha detto il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, nel suo intervento e ha aggiunto: «Abbiamo semplicemente fatto, non da ieri una scelta per una sinistra e per un centrosinistra di governo. Questo siamo. Noi non ci accontentiamo per così dire delle nostre biografie, sappiamo che il mondo è complicato e che esercitare l’azione di governo è una sfida per Italia e resto del mondo. Ma l’alternativa di metterci in pace con le nostre biografie non ci convince».
“I distacchi dei sondaggi sono colmabili”
Nella corsa elettorale, rispetto alla coalizione avversaria, «c’e un distacco di sei-sette punti, non esistono distacchi incolmabili. Le cose possono cambiare se lavoriamo con grande impegno per un centrosinistra che risolva problemi del Paese» ha proseguito. «Sono convinto - ha concluso - che nella prossima legislatura l’unico pilastro stabile sia quello del centrosinistra, tutti devono dare il proprio contributo».
“Prodi è leader che può dare ispirazione”
«La partecipazione mia e di Romano a questa iniziativa di Insieme credo che sia molto importante» ha aggiunto. «Abbiamo vinto due volte con Romano - ha proseguito Gentiloni nel suo intervento -, non sempre riusciamo a vincere. Negli ultimi anni di Prodi mi ha sempre colpito per questa sua straordinaria capacità di tenere insieme radici del territorio e una visione globale». «Al di là» dei ricordi «delle bella stagione - ha concluso il premier - Prodi è un leader che può dare a tutti noi ispirazione».
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CESARE ZAPPERI, CORRIERE.IT –
Romano Prodi per un giorno torna ad immergersi in una campagna elettorale. Lo fa nella sua Bologna, in un’assemblea di «Insieme», la lista patrocinata dal suo ex ministro Giulio Santagata, per dare il suo sostegno alla coalizione di centrosinistra e per lodare il presidente del Consiglio in carica Paolo Gentiloni (a sua volta presente). «C’è una certa commozione nel tornare a un’assemblea politica dopo quasi nove anni. E c’è commozione anche, proprio per il riconoscimento a Paolo del lavoro che sta facendo in un momento difficile in cui dobbiamo mostrare un paese sereno, che ha idee chiare, che riconosce i propri limiti e i propri meriti nell’ambito europeo e ricostruisce un ruolo per avere una influenza nel mondo, per essere l’Italia che noi vogliamo: sana, forte, rigorosa».
L’intervento di Gentiloni
Dal canto suo Gentiloni ha osservato: «Abbiamo fatto una scelta non da ieri per un centro sinistra di governo, questo siamo: noi non ci accontentiamo delle nostre biografie, sappiamo che il mondo è complicato e oggi esercitare l’azione di governo per il centro sinistra è una sfida in italia e nel resto del mondo, ma l’alternativa di mettersi in pace con le nostre biografie e sottrarsi alle sfide del governo non ci convince.Siamo nati come Ulivo sotto la leadership di Romano con questa sfida - ha concluso Gentiloni- e non è che dopo vent’anni ce ne dimentichiamo e facciamo una scelta diversa. Quella resta la nostra aspirazione e il nostro impegno». Occorre sottolineare, ha detto, la «generosità di Romano Prodi di partecipare a questa iniziativa, credo che il fatto che noi siamo qui insieme sia molto importante. Abbiamo vinto due volte con Romano, non sempre riusciamo a vincere. Negli ultimi anni di Prodi mi ha sempre colpito questa sua straordinaria capacità di tenere insieme radici del territorio e la visione globale», di ampio respiro internazionale. «Al di là» dei ricordi «della bella stagione - ha concluso - Prodi è un leader che può dare a tutti noi ispirazione».
Prodi: «Bisogno di centrosinistra»
Il fondatore dell’Ulivo ribadisce la sua fedeltà allo schieramento storico: «Abbiamo bisogno di una coalizione di centrosinistra forte perché è l’unica che pone due valori fondamentali, maggiore eguaglianza e maggiore Europa. La coalizione di centrosinistra deve stare insieme e capire e interpretare i grandi cambiamenti nel mondo - ha aggiunto - Dobbiamo fissare pochi valori e portarli avanti insieme e fare barriera contro chi con i propri programmi aumenta le diseguaglianze». Quella nel centrosinistra «non può essere un’alleanza difensiva, ma all’attacco. La grande politica va all’attacco, fiduciosi, con serenità. Diceva mia mamma che tutti i suoi amici partiti per la guerra tristi erano tornati morti. Giocando al contrattacco abbiamo perduto il senso di avere di fronte a noi una grande missione. In una lista - ha aggiunto Prodi riferendosi ad un concetto ampio di coalizione - vi devono essere differenze, ma non divaricazioni che abbiamo nella coalizione di destra e vaghezza dei Cinquestelle. Qualcosa di assolutamente impossibile: poche settimane dopo le elezioni c’è da andare a Bruxelles. Impossibile che nello stesso governo ci siano europeisti e antieuropeisti. Lega e Fi - ha concluso - hanno linee assolutamente divergenti: abbiamo la necessità di stare insieme, avere senso del futuro, capire i grandi cambiamenti del mondo, di interpretarli».
Il sostegno a «Insieme»
Poi una sorta di «endorsement» a favore della lista che vede insieme ex ulivisti, socialisti e ambientalisti: «A Insieme mi sento particolarmente legato perché porta avanti la logica che era il mio sogno, il mio compito, la mia coerenza con la vita, quello di mettere insieme i diversi riformismi». Poco prima, il prodiano Giulio Santagata, in lista a Bologna con Insieme, aveva punzecchiato il Pd: «Non tutto il partito, mi duole dirlo, ha colto che il centrosinistra e’ piu’ grande del Pd. Il Paese ha bisogno di pluralismo e di alleanze ampie». Dal canto suo Prodi ribadisce che la prima cosa che dovra’ fare il prossimo governo sara’ «cambiare la legge elettorale». Subito. «Quando si hanno indirizzi fondamentali comuni, il resto lo si decide insieme. Per questo e’ importante che la coalizione abbia un ruolo nelle prossime elezioni».
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REEPUBBLICA.IT –
Romano Prodi si schiera dalla parte di ’Insieme’ e investe, se non formalmente, almeno di fatto, il premier Paolo Gentiloni, anche lui presente a un incontro elettorale a Bologna, riconoscendo il lavoro che il presidente del Consiglio sta svolgendo "in un momento difficile, in cui abbiamo bisogno di mostrare un Paese sereno, con idee chiare, che riconosce propri limiti e i propri meriti in Europa e ricostruisce il suo ruolo. Un’Italia che vogliamo sana forte vigorosa".
È un testimone ideale quello che Prodi passa a Gentiloni, mostrando alla platea un vecchio manifesto della campagna elettorale del 2006 con l’immagine di Prodi e lo slogan "La serietà al governo". "È per questo che Paolo è qui", dice Prodi a cui fa eco Giulio Santagata, uno dei fuoriusciti dal Pd: "L’ultima fase di governo mi sembra particolarmente positiva rispetto a dove eravamo arrivati. Si è capito che questo è un Paese che ha bisogno di essere guidato non comandato", afferma l’economista, evidenziando il "cambiamento di stile" del successore di Matteo Renzi.
Al Professore risponde il capo di palazzo Chigi, che individua in Prodi il "simbolo del centrosinistra che vince". "Noi siamo nati come Ulivo sotto la leadership di Romano Prodi, per andare al governo. Quella resta la nostra ispirazione, il nostro impegno, anche dopo vent’anni. Quegli slogan che ogni tanto venivano da un professore di Sassari (Arturo Parisi, ndr), ’uniti per unire’, se li andate a riguardare sono tuttora il tessuto della coalizione del centrosinistra a guida Pd che oggi si presenta alle elezioni". E aggiunge: "Una forza come ’Insieme’ scommette sulla convergenza di esperienze e culture diverse: questo è il suo contributo". E conclude: "L’obiettivo con il quale ci presentiamo alle elezioni del 4 marzo molto semplicemente è assicurare all’Italia una seconda stagione di riforme".
I distacchi che, secondo i sondaggi, il centrosinistra registra rispetto agli avversari, sembrano non preoccupare il premier uscente: "C’e un distacco di sei-sette punti, non esistono distacchi incolmabili. Le cose possono cambiare se lavoriamo con grande impegno per un centrosinistra che risolva problemi del Paese". E aggiunge: "Sono convinto che nella prossima legislatura l’unico pilastro stabile sia quello del centrosinistra, tutti devono dare il proprio contributo".
• COALIZIONI
In un momento complesso come questo, spiega Prodi, le coalizioni non sono frutto di alcuna cattiveria, ma la conseguenza del moltiplicarsi del numero dei partiti: "Abbiamo bisogno di coalizioni. Non solo noi, lo si vede anche in Germania. Abbiamo bisogno di una coalizione di centrosinistra forte per due valori: lotta alla disuguaglianza e Europa".
L’ex premier ribadisce che le sua presenza all’incontro di ’Insieme’ è la testimonianza a "sostenere la coalizione di centrosinistra, ma soprattuto questa parte della coalizione. A Insieme mi sento particolarmente legato perché porta avanti la logica che era il mio sogno, quello di vedere unito il centrosinistra", auspicando "un contributo plurale per una vittoria comune".
• PIU’ EUROPA E LOTTA A DISUGUAGLIANZE
Sono pochi, per Prodi, i punti fermi intorno ai quali il centrosinistra deve fare squadra, "stare insieme e capire e interpretare i grandi cambiamenti nel mondo - ha aggiunto -. Dobbiamo fissare pochi valori e portarli avanti insieme e fare barriera contro chi con i propri programmi aumenta le diseguaglianze".
• CENTRODESTRA, BALLETTO SALVINI- BERLUSCONI SU PREMIER
Resta ancora coperto dal mistero il nome del candidato premier di Forza Italia: "Non posso fare il nome, ma la cosa è già decisa - dice Silvio Berlusconi -. Ho anche l’ok del diretto interessato, ma i suoi impegni in questo momento sono tali per cui ha chiesto di non dare per il momento ufficialmente il suo nome. Sarà un nome importante un nome che assicurerà all’Italia splendidi rapporti con l’Europa e che forse sarà la migliore soluzione per far ottenere all’Italia tutte le cose che dobbiamo chiedere all’Europa e che finora non abbiamo ottenuto". Un nome che, però, dice l’ex cavaliere "Salvini conosce"
"Governiamo bene con la Lega di Salvini in molte realtà - ha detto Berlusconi - Salvini si è seduto attorno ad un tavolo con me e gli altri alleati. Lui è una persona gradevole, ma anche ragionevole e concreta".
Nega il leader del Carroccio: "Il nome del candidato premier di Berlusconi? Non lo so. La sorpresa è così sorpresa che non ne ho la più pallida idea. Le sorprese mi piacciono a Pasqua. Per il presidente del Consiglio non adoro le sorprese, preferisco la chiarezza". E si dice sicuro che ad occupare la poltrona più importante di Palazzo Chigi sarà lui: "La Lega prenderà un voto in più di tutti gli altri del centrodestra e da presidente del Consiglio avrò l’onore e l’onere di scegliere i ministri". Uno di questi, dice il leader del Carroccio, è l’ex Cavaliere: "Farei fare il ministro a Berlusconi: da presidente del Consiglio non vedo l’ora di far fare il ministro a persone competenti settore per settore. Il primo settore priorità per il futuro e agricoltura e pesca, che affiderei a un uomo della Lega".
Quindi niente ruolo da capo del Viminale, come vorrebbe Berlusconi? "Mi fa piacere, ma il problema sarà mio quando gli italiani, come spero per la loro scelta di testa, ma soprattutto di cuore, mi mandano a fare il presidente del Consiglio. Dovrò scegliere un bravo ministro dell’Interno per la sicurezza degli italiani e per i tanti stranieri che sono in Italia. Tra un mesetto saprete chi avrò scelto", aggiunge.
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MONICA GUERZONI, CORRIERE DELLA SERA 17/2 –
Il tema del giorno è il fortissimo rischio che dal 5 marzo, in assenza di una maggioranza, il Paese precipiti nella palude. I sondaggisti vedono nero e Paolo Gentiloni tranquillizza l’Europa, che guarda alle elezioni italiane con preoccupazione crescente. «L’Italia avrà un governo stabile», è la formula con cui il presidente del Consiglio rassicura Angela Merkel durante la conferenza stampa congiunta che ha chiuso l’incontro di ieri a Berlino: «Non c’è nessun rischio che l’Italia abbia un governo su posizioni populiste e antieuropeiste».
Per Palazzo Chigi il vertice con la cancelliera tedesca è stato «molto positivo» e anche piuttosto lungo, un’ora abbondante, dopo il rinvio della settimana scorsa dovuto alle trattative per la nascita della Grosse Koalition . «Cosa buona e giusta che aiuta il progetto europeo», si è complimentato Gentiloni. A sua volta Merkel ha confermato gli «eccellenti rapporti con l’Italia» e definito «importantissimo» il lavoro del governo per gestire l’onda migratoria. Un vanto che a sera, intervistato da Lilli Gruber e Paolo Mieli a Otto e mezzo su La7, Gentiloni rivendicherà con orgoglio: «La linea di Minniti è la linea del governo».
Anche in Germania le domande della stampa sono rivolte ai temi della campagna elettorale italiana. L’inquilino di Palazzo Chigi tranquillizza, certo che «la coalizione di centrosinistra sarà il pilastro di un governo stabile, non caratterizzato da posizioni anti europee». Gli elettori sembrano orientati a premiare il centrodestra, eppure Gentiloni scaccia i cattivi presagi e insiste nel proporre l’alleanza del Pd come centrale: «Il blocco composto da Pd e alleati ha curriculum, credibilità e affidabilità per affrontare i problemi». Sì, ma i sondaggi? «Le soluzioni di governo le daranno gli elettori il 4 marzo». E se l’Italia avesse di nuovo bisogno di lei? «Farò il mio dovere come sempre», assicura Gentiloni, ricordando che dopo il voto «la parola passa al Parlamento e al presidente della Repubblica».
Se dalle urne non dovesse venire fuori una maggioranza autosufficiente toccherà a Sergio Mattarella risolvere il rebus e trovare «la strada per un governo stabile». Inutile dunque, prosegue il premier, discettare di larghe intese prima del voto, quella è «una discussione da fare dopo le elezioni». E qui Gentiloni prova a mettere una toppa alla polemica che ha diviso i dem dopo le parole del ministro Marco Minniti, che si era detto pronto a entrare in un governo di unità nazionale. Una cosa Gentiloni vuole sia chiara, il Pd «non si alleerà mai con i populisti». Nemmeno con i Cinque Stelle? «Lo hanno sempre escluso e credo facciano bene a escluderlo».
C’è tempo anche per garantire che i decreti attuativi della riforma carceraria approderanno in Consiglio dei ministri il 22 febbraio e per stoppare la voglia di condoni del centrodestra: «Figuriamoci se noi possiamo rilanciare questo tema».
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MASSIMILIANO PANARARI, LA STAMPA 17/2 –
Massimiliano Panarari
Tu chiamale, se vuoi, larghe intese. O chiamale, letteralmente, «come vuoi», dal momento che nelle passate stagioni politiche si è fatto ricorso, di volta in volta, a etichette come compromesso storico, governo di tregua, esecutivo di impegno nazionale o, alla tedesca, grande coalizione. A cambiare, naturalmente, era il contesto, quello che in questo campo fa precisamente la differenza.
Bestia nera dei partiti populisti e sovranisti, vengono polemicamente assimilate a un «inciucio». Ma questa parola, terribilmente cacofonica, rappresenta nei fatti un approccio improprio, e inadeguato, alla questione. Le larghe intese sono un’alleanza che si fa necessariamente tra diversi - e, quindi, il criterio «estetico» o quello morale (ambedue ascrivibili alla dimensione della prepolitica) non c’entrano granché. Così come le preferenze individuali, nel senso che una formula coalizionale di questo genere nasce proprio dal mancato trasformarsi di una delle parti che si sono combattute in campagna elettorale in una maggioranza autonoma e autosufficiente.
Partendo dai dati di fatto, appare piuttosto chiaro perché l’opzione delle larghe intese sia diventata più frequente in quest’epoca postmoderna di crisi delle democrazie liberal-rappresentative.
Oggi le élites politiche nazionali (con tutte le loro responsabilità, beninteso) si trovano alle prese con la crisi della rappresentanza, lo svaporamento dei partiti di massa e un astensionismo galoppante; nonché con un sistema politico che non si è mai davvero sedimentato e riconfigurato all’indomani della «crisi di regime» post-Tangentopoli, e che non ha mai visto la nascita di un mercato politico definito una volta per tutte, né di nuove offerte partitiche stabili.
Le larghe intese andrebbero allora osservate «laicamente» dal punto di vista delle dinamiche di funzionamento del sistema politico; e, pertanto, possono rivelarsi positive o negative a seconda dei casi e in relazione a una serie di fattori. Un atteggiamento di merito difficoltoso specialmente in questo Paese dove le culture politiche (o i simulacri che le hanno sostituite) sono costantemente in guerra, e si rifiutano, come civiltà politica invece vorrebbe, di trovare terreni condivisi e denominatori comuni.
Osservando le larghe intese senza furori di parte (o strumentali), si può notare che esse funzionano se producono politiche soddisfacenti per i gruppi sociali che fanno riferimento alle forze politiche coinvolte, oppure se servono ad approvare riforme che richiedono un largo consenso in Parlamento e risultano impopolari (ma giustificate da un interesse generale di prospettiva, o di più lungo periodo). Ovvero: se producono performance politiche efficaci (e, quindi, una forma di buongoverno), oppure se garantiscono seriamente la tenuta democratica e di sistema (come nell’esperienza della solidarietà nazionale che reagì al terrorismo).
E, invece, sono problematiche o fallimentari se si presentano quale unione di debolezze e soluzione d’emergenza che si protrae per troppo tempo, ingessando la dialettica politica normale. O se generano nell’elettorato la sensazione di un blocco di sistema e dell’impoverimento dell’offerta politica (o della sua riduzione a un puro schema «establishment vs. antisistema», privo di qualunque alternativa). E, ancor più, se si presentano come un tentativo da parte del ceto politico di preservarsi a dispetto della sfiducia e delle critiche dei cittadini-elettori.
In una campagna elettorale, specie se permanente come quella italiana, tutta l’attenzione risulta ossessivamente assorbita dalla polemica furibonda e dalla battaglia ideologica. E, invece, riflettere in termini di utilità (o meno) e di risposte efficienti (oppure no) che il modello delle larghe intese può fornire all’andamento di un sistema politico dovrebbe precisamente fare parte di un’idea basilare della politica, al tempo stesso «educativa» e pragmatica.
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ANDREA CARUGATI, LA STAMPA 17/2 –
La Germania della Grande Coalizione come esempio per l’Italia del 5 marzo. Paolo Gentiloni, in visita a Berlino dalla Cancelliera Merkel, loda lo sforzo fatto da Spd e Cdu per dare un governo al Paese dopo mesi di stallo. «L’accordo che si è realizzato è una cosa buona e giusta, che aiuta il progetto europeo, la decisione della Spd va in una direzione importante».
Il premier fa di più e, lasciando da parte per alcuni istanti la sua proverbiale prudenza, assicura che dopo il voto «l’Italia avrà un governo stabile. Non vedo nessun rischio che l’Italia abbia un governo su posizioni populiste e antieuropee».
Gentiloni afferma a più riprese che il Pd e la sua coalizione saranno «il pilastro» di una nuova maggioranza. Pilastro, dunque, di una casa più larga.
Da questo ragionamento parte il gioco di squadra tra il premier e il ministro dell’Interno Minniti, che dopo l’uscita di giovedì a “Porta a Porta” ieri ha ribadito di essere disponibile a entrare in un futuro governo aperto anche ad avversari del Pd: «Ma io ho parlato di governo di unità nazionale, non di larghe intese», precisa Minniti. E Gentiloni coglie la palla: «Una distinzione sottile, che tanto sottile non è». E aggiunge: «Consigli da Merkel su come fare? Guardate che in Germania ognuno ha fatto la campagna elettorale sulle proprie proposte... ».
Il punto, al netto della trattativa con Forza Italia ancora tutta da scrivere, è come il Pd arriverà al 5 marzo. «Bisogna arrivarci vivi, poi si può ragionare», sintetizza Francesco Rutelli, ieri col premier e il ministro della Sviluppo Carlo Calenda ad una affollatissima iniziativa elettorale. «Il voto degli italiani non è una pratica burocratica», gli fa eco il primo ministro. Che nota una discrasia tra gli alti indici di gradimento suoi e del governo e i consensi del Pd. Non è il solo. Con Minniti e Calenda ha in testa un solo obiettivo: recuperare il voto popolare dei «perdenti della globalizzazione», scrollarsi di dosso l’etichetta del Pd come «partito dell’Italia che vince». «Il nostro compito non è negare le paure, ma capirle», dice Calenda, molto critico verso «l’arroganza» che «ci ha fatto perdere un sacco di voti». E aggiunge: «Io premier? Paolo lo sa fare molto meglio di me e di chiunque altro. Nella vita bisogna fare le cose per tappe, la retorica del giovanilismo ci ha portato Di Maio e Salvini».
Nessuno della triade (cui si può aggiungere anche il ministro dell’Economia Padoan) nomina mai in negativo Berlusconi. Che, a sua volta, definisce il premier «persona avveduta e gentile» e Calenda uno «capace». In questa storia d’amore bipartisan non ancora nata l’unica cosa che manca sono i numeri per governare. Non certo i possibili partner. Oltre al Cavaliere (costretto dall’alleato Salvini a tenersi più o meno abbottonato) l’ipotesi di un governo europeista troverebbe senza dubbio i favori di Gianni Letta, del partito Mediaset con Fedele Confalonieri, ma anche di esponenti di punta di Forza Italia come Antonio Tajani, Paolo Romani (che ha dato prova da capogruppo di saper collaborare coi dem) e dell’ex ministro degli Esteri Franco Frattini. Senza dimenticare il gruppo che fa capo a Pier Ferdinando Casini e i cugini della Quarta gamba del centrodestra, governisti per vocazione, la super europeista Emma Bonino e la parte della Lega che fa riferimento a Roberto Maroni, decimata dalle liste di Salvini proprio per evitare inciuci.
Dentro Leu l’asse Pd- Forza Italia viene giudicato in modo molto negativo. Ma molti ricordano che Massimo D’Alema è stato il primo a evocare un governo del presidente in caso di pareggio. Resta poi la variabile Renzi. I rapporti con Berlusconi sono rimasti discreti, e il leader Pd non manca di ricordare che il Cavaliere «ha una credibilità in Europa, mentre Salvini è ritenuto un pericolo dal Ppe».
Il punto semmai è capire cosa accadrà nel Pd dopo il 4 marzo: la serata di ieri (ovazioni per Gentiloni, la sua «umiltà» e il «gioco di squadra», solo un timido applauso per «Matteo») suggerisce un tentativo di rimozione del leader in caso di débâcle.
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CARMELO LOPAPA, LA REPUBBLICA 17/2 –
«Paolo, come finirà in Italia il 4 marzo?» Angela Merkel si sforza di non apparire preoccupata quando si chiudono le porte del suo studio al Bundeskanzleramt e inizia il faccia a faccia col premier italiano Gentiloni. La domanda sottintesa è se le forze di governo ce la faranno ad arginare la deriva dei partiti populisti e antieuropeisti che tanto preoccupano le cancellerie di mezzo continente. Il presidente del Consiglio non considera chiusa la partita, anzi, le spiega che non esclude «sorprese» favorevoli, (come in serata dirà apertamente parlando a Roma a un’iniziativa promossa da Francesco Rutelli con Carlo Calenda). Le spiega che il centrosinistra italiano, e in particolare il Pd, sarà «il pilastro del futuro governo». Con quale maggioranza trasversale non lo specifica, non lo spiegherà nemmeno nella conferenza stampa successiva. «L’Italia garantirà un governo stabile capace di andare avanti sulla strada della crescita e dell’integrazione europea e non dominato da forze populiste.Dopo il voto sarà il presidente della Repubblica a indirizzare il Paese verso una soluzione», si limita a rispondere.Dura 60 minuti esatti il colloquio, l’ultimo appuntamento internazionale voluto dall’inquilino di Palazzo Chigi prima del voto (a parte il Consiglio europeo della settimana prossima a Bruxelles). Era saltato otto giorni prima per gli impegni della Cancelliera alle prese con la chiusura delle trattative Cdu-Spd per la rinascita della Grosse Koalition.Prima di incontrare Theresa May, Frau Merkel garantisce il suo sostegno discreto all’amico Paolo, col quale ha condiviso in questo anno le politiche migratorie. «Tanto ha fatto l’Italia, abbiamo cooperato sulle politiche migratorie, ringrazio Gentiloni». Lui che ricorda che «l’Europa deve fare di più e meglio» sul rilancio economico, «l’Italia è pronta a fare la sua parte», lei che annuisce, insomma l’idillio di sempre.Certo, i numeri riportati ieri dai giornali, quelli degli ultimi sondaggi pubblicabili, sono quelli che sono: nessuna maggioranza si profila all’orizzonte, il solo centrodestra si avvicina alla fatidica soglia del 40. Angela Merkel sorride quando i giornalisti tedeschi in conferenza stampa chiedono all’ospite italiano proprio del rischio caos post 4 marzo. Il suo quarto governo si sta formando dopo quasi sei mesi di trattative. Si chiude il vertice a Berlino e Gentiloni si tuffa nel pieno della campagna elettorale a Roma.«Smettiamola di utilizzare questi giorni fino al 4 marzo come se fossimo già a metà marzo e a discutere di quello che si dovrà fare allora (di alleanze e con chi, ndr), come se il voto dei cittadini fosse una pratica burocratica, perché non è così» ammonisce parlando ad un’iniziativa del Pd romano insieme con Francesco Rutelli e Carlo Calenda, due big sponsor del premier. «Ha salvato l’Italia senza arroganza» dice l’ex sindaco di Roma. Il presidente del Consiglio ricambia il sostegno. «Io ho imparato lo spirito di squadra da Francesco, ho cercato di praticarlo a Palazzo Chigi, si vince in quel modo». Il ministro dello Sviluppo fa outing: «Voto Gentiloni, ha fatto il premier meglio di chiunque altro». E lui, scatenando l’ilarità della platea, ricambia: «Calenda sembra un po’ spiccio e ruvido, ha un modo di fare renziano...».Tanti indizi convergono sulla possibilità che il premier non chiuda nelle prossime settimane la sua esperienza. Lilli Gruber in serata glielo chiede espressamente a “Otto e mezzo”, a proposito del dopo in assenza di una maggioranza. Se l’Italia la chiama? «Se l’Italia chiama ci deve essere una compagine di governo capace di proseguire su questa strada e io farò il mio dovere come ho sempre fatto in questi anni».***
MARCELLO SORGI, LA STAMPA 17/2 –
Marcello Sorgi
L’ultima serie di sondaggi (nella fase finale della campagna non è più consentito pubblicarli) ha confermato le tendenze già note, senza variazioni significative: nessuna delle tre forze in campo è in grado di arrivare alla maggioranza, tranne forse il centrodestra, che tuttavia ancora non può vantare alcuna certezza. I 5 stelle non risentono del caso falsi bonifici e mancate restituzioni. Il Pd è in calo. Due dei suoi alleati, “Civica e Popolare” del ministro Lorenzin e “Insieme” dei cattolici, socialisti e verdi associati corrono il rischio di non superare la soglia di sbarramento dell’1 per cento, cioè di disperdere i voti.
L’unica vera novità riguarda la lista Bonino-Tabacci “Più Europa”, accreditata al 3,5 per cento, oltre la soglia in cui i voti si sommerebbero con quelli del Pd. La Bonino, in altre parole, avrebbe potuto anche correre da sola ed entrare in Parlamento senza l’aiuto della collocazione in coalizione, che consente di abbassare la soglia di ingresso dal 3 all’1 (ciò che hanno cercato di fare, finora senza risultati, gli altri due alleati di Renzi).
Naturalmente nessuno è in grado di prevedere fino a che punto arriverà la corsa della leader radicale e ex-ministro degli Esteri. Dai dati delle sue precedenti esperienze si può però ricavare una tendenza: Bonino ha sempre preso più voti quando s’è presentata da sola, come ad esempio alle Europee del 1999, quando la sua lista arrivò all’8,45 per cento, che non quando s’è alleata, come accadde alle amministrative del 2000, quando scelse D’Alema (il cui governo tra l’altro fu travolto dall’insuccesso nelle urne), e la sua percentuale calò precipitosamente fino al 2.
Il negoziato tra Renzi e Bonino, si sa, è stato piuttosto tormentato: ma cosa succederebbe se davvero la lista “Più Europa” dovesse superare il 3 per cento e andare addirittura a sfiorare il 4? Semplice: il Pd, benché alleato, non potrebbe sommare ai suoi i voti radicali e di Tabacci, con la conseguenza di dover allineare nelle tabelle dei risultati soltanto i propri consensi. L’obiettivo dichiarato dal segretario del Pd di diventare il primo gruppo parlamentare singolo per seggi, battendo i 5 stelle, diventerebbe più difficile da raggiungere.
Ancora una volta il Rosatellum, pensato per rallentare l’ascesa dei grillini e limitare i danni del ritorno al proporzionale, finirebbe con il ritorcersi contro chi lo ha pensato, proposto e fatto approvare in extremis al termine della scorsa legislatura.
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ANTONIO POLITO, CORRIERE DELLA SERA 17/2 –
U na democrazia parlamentare senza maggioranza parlamentare è un bel guaio. Se si verificherà lo scenario previsto da Pagnoncelli e da altri istituti di sondaggi, dobbiamo infatti prepararci al quinto governo di fila non scelto dagli elettori nelle urne ma costruito in Parlamento. È costituzionale oltre che saggio farlo, quando non c’è alternativa. Ma è pur sempre una prova di grave debolezza del sistema politico, un grippaggio nel motore che dovrebbe trasformare la volontà popolare in rappresentanza parlamentare. Con il rischio che questo logori oltre misura il già difficile rapporto tra elettori ed eletti, e alla lunga diffonda sentimenti di rifiuto della stessa prassi democratica.
Inoltre, per un Paese così bisognoso di riforme e modernizzazioni, un governo costretto a cercarsi, o inventarsi, una maggioranza che le urne non gli hanno dato sarebbe di sicuro più debole, più esposto a ricatti e imboscate, inadatto alla navigazione in alto mare.
Ma se si tratta di galleggiare — per usare l’efficace metafora che ieri ha lanciato sul Corriere Angelo Panebianco — allora bisogna dire che il nostro sistema politico dispone dell’attrezzatura adatta a un ammaraggio di emergenza. Dopo le elezioni, infatti, molti dei difetti che gli sono sempre stati contestati potrebbero rivelarsi utili a risolvere il rebus che gli elettori non avessero sciolto.
Per esempio: è abbastanza chiaro che per nascere col forcipe qualsiasi governo avrebbe bisogno di un certo numero di transfughi, parlamentari che comincino cioè la propria transumanza fin dall’inizio. Tra gli eletti destinati a restare all’opposizione è presumibile che non saranno pochi i disponibili a manifestazioni di «responsabilità», soprattutto se questo garantisse la durata della legislatura. Se pure mancassero — come pare possibile — tra i venti e i trenta voti per una soluzione, la storia ci insegna che il Parlamento italiano li può trovare.
Allo stesso modo potrebbe tornare per una volta utile la tanto deprecata frantumazione del sistema politico: più gruppi «piccoli» entreranno in Parlamento, più sarà ampia quella terra di mezzo in cui si praticano le alchimie e si fondono gli opposti. Senza dire che il nostro sistema istituzionale garantisce una provvidenziale funzione di persuasore e facilitatore al Capo dello Stato, che mai come questa volta potrebbe rivelarsi preziosa. Non va infine dimenticato che anche cinque anni fa, nel 2013, le elezioni non consegnarono una maggioranza al Senato, e ciò nonostante la legislatura è durata cinque anni, e ha espresso uno dei governi più longevi e più ambiziosi in materia di riforme, forse anche troppo, visto come è caduto nel tentativo di cambiare la Costituzione. È importante insomma sapere che ce la possiamo fare, anche nel peggiore dei casi. E chi già oggi minaccia seconde elezioni in caso di fallimento delle prime, lo dice per dire. Del resto ciò che ci chiedono i nostri interlocutori internazionali, appartengano al mondo degli affari o a quello delle cancellerie, è se ce la faremo. Se cioè il nostro sistema istituzionale saprà reggere a una prova così difficile; o se invece un infarto politico può fermare la nuova vitalità del Pil, rimettendo in discussione la solvibilità del nostro debito, e aprire un buco nella nuova architettura europea che Francia e Germania, ormai fuori dal ciclo elettorale, stanno per ridisegnare.
La risposta che dobbiamo dare è: ce la faremo. D’altra parte il resto del mondo ha già visto la Brexit vinta sul filo di lana, Trump presidente con meno voti della contendente, elezioni inconcludenti in Spagna e Germania e incapaci di consegnare una maggioranza perfino nella iper-maggioritaria Gran Bretagna. Non siamo davvero i soli a dover fare i conti con una severa crisi della democrazia rappresentativa. Da noi magari è cominciata prima. Ma proprio per questo dovremmo essere più capaci di affrontarla. Il 5 marzo la vita continua.
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TOMMASO LABATE, CORRIERE DELLA SERA 17/2 –
«La priorità del nostro Paese è quella di avere un governo. E un governo ci sarà». La matematica, a volte, è un’opinione. Anche in questo caso. E i numeri alla Camera e al Senato, che quel governo possono farlo partire, sono molto al di sotto della maggioranza semplice. «Si può fare anche un calcolo. Se si mettono insieme 295 deputati a Montecitorio e 155 a Palazzo Madama, gli altri vengono fuori in meno di una settimana».
A parlare non è un parlamentare qualsiasi. Pur dividendosi tra maggioranza e opposizione, infatti, nell’ultima legislatura Paolo Naccarato è stato uno «stabilizzatore» doc. Dove c’erano maggioranze pericolanti, il suo telefono squillava. Profondo conoscitore della politica e del Palazzo, allievo prediletto di Francesco Cossiga nel passato remoto e di Giulio Tremonti in quello recente, Naccarato è stato uno degli animatori del gruppo «Gal» (Grandi autonomie e libertà) al Senato. Oggi è in forza a «Noi con l’Italia», la quarta gamba del centrodestra. E, per il centrodestra, corre nel collegio uninominale di Cosenza centro, dove parte favorito.
La storia del «partito fantasma», la vicenda futura dei «nuovi responsabili» che ad Arcore danno già per acquisita, ha un inizio nel presente. «Dove si trovano i numeri se i numeri per fare il governo non ci sono?». Semplice. «Prendete per esempio gli eletti sicuri del Movimento 5 Stelle coinvolti nello scandalo rimborsi, quelli che hanno annunciato un passo indietro subito dopo la proclamazione», argomenta Naccarato. «Facciamo pure finta che siano tutti sinceri nelle loro intenzioni, ok? Ma le dimissioni dovrebbero essere votate dalle rispettive camere. E nessuno degli altri partiti voterà a favore, perché altrimenti farebbero entrare altri grillini. Rimarranno quindi al gruppo misto. E, secondo voi, useranno i loro voti per tornare subito a elezioni a cui non sarebbero candidati? O voterebbero invece la fiducia a qualsiasi governo?».
Ma non ci sono solo i sospetti sui fantasmi che saranno eletti coi M5S pur essendone di fatto già espulsi. Anche nel gruppo di «Noi con l’Italia-Udc» si annidano molti di coloro che, secondo gli osservatori di Arcore e del Nazareno, farebbero nascere un governo a qualsiasi costo. Raffaele Fitto, che della forza in questione è il capo politico, respinge al mittente le accuse: «Pur andando contro il mio interesse personale, ho combattuto il Patto nel Nazareno in passato. La mia storia parla per me». Ma il cartello è composto da molte anime, tra cui quella dell’Udc. Che, nelle rare volte in cui si è trovata nelle minoranze, ha sempre teorizzato quella che il suo leader Lorenzo Cesa definì, all’epoca dell’arrivo del governo Gentiloni, «opposizione responsabile». Di maggioranze che si compongono e scompongono parlano più o meno tutti. Da +Europa, che superando il 3 per cento paradossalmente creerebbe problemi al suo alleato Pd, Emma Bonino ha parlato di «larghe intese ma senza Salvini». Il renziano Matteo Richetti, ieri a Omnibus su La7, ha scommesso che «Berlusconi non sosterrà mai un governo a guida leghista». Marco Minniti, da Bruno Vespa, ha chiarito che farebbe parte («Assolutamente sì») di «un governo di unità nazionale purché ci fosse anche il mio partito». E Naccarato conclude: «Ci sarà un governo con un premier indicato dall’anima moderata del centrodestra, quindi da Forza Italia». Anche senza Antonio Razzi (non candidato) e Domenico Scilipoti (quarto in lista in Puglia con FI), che dei primi responsabili furono i frontman , tutti danno per scontato che i «nuovi responsabili» ci saranno. «Noi non siamo la Spagna, da noi una maggioranza verrà fuori comunque», fu la scommessa fatta da Denis Verdini a Capodanno. Lui, in Parlamento, non ci sarà. Ma la cifra simbolica della scommessa è pronto comunque a incassarla.
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MARCO CONTI, IL MESSAGGERO 17/2 –
«Io il mio l’ho fatto. Sono sceso di nuovo in campo per fermare la crescita delle forze populiste e ci sono riuscito». Silvio Berlusconi è molto soddisfatto. In poche settimane, secondo i sondaggi pubblicati sino a ieri, FI è risalita di oltre cinque punti arrivando al 18%. Ovviamente il Cavaliere quando parla in pubblico dei «populisti» si riferisce al M5S, ma il suo ritorno in pista ha contribuito non poco a frenare anche la Lega di Salvini che è ancora sotto FI, anche se non con il divario degli anni scorsi. Ad Arcore si ragiona invece sul Pd e si sostiene che la quota minima che i Dem dovrebbe raccogliere per un governo di larghe intese dovrebbe essere «almeno del 24%». Ai Dem però manca ancora qualche punto percentuale per raggiungere la soglia minima su cui ragiona il Cavaliere che è anche convinto che a sinistra la botta della scissione non sia stata ancora assorbita e produce un alto numero di indecisi.
LO STALLOIeri pomeriggio Paolo Gentiloni ha preso le distanze dai ragionamenti sul dopo voto ricordando che in Germania la Merkel e Schulz hanno fatto una campagna elettorale per vincere. Poi il risultato non ha dato un vincitore netto, ma i primi tentativi per comporre il governo non puntavano alla grosse koalition ma ad un’alleanza molto larga senza i socialisti. Ciò che Gentiloni non dice è che anche il giorno dopo il voto, Schulz diceva «no» ad un’alleanza con la Merkel. E poi si sa come è andata.
Se il risultato elettorale del 4 marzo dovesse essere quello dei sondaggi lo stallo sarebbe certificato. L’esigenza di evitare il collasso del sistema e altre elezioni a breve con la stessa legge elettorale, spingerà il Quirinale e i partiti a tentare ogni tipo di soluzione, ed ovviamente servirà tempo prima che i partiti spurghino le tossine accumulate in campagna elettorale e ricomincino a parlarsi. L’aritmetica non va però sempre d’accordo con la politica e, soprattutto, con la voglia di quasi - se non tutti - i leader di essere della partita, perchè a nessuno conviene tornare a votare. Rimanere fuori dalla trattativa per il governo rischia infatti di compromettere le leadership interne, nel Pd come nel M5S, in FI come in LeU. L’obiettivo di Renzi resta quello di portare in Parlamento il gruppo più forte, grazie al Pd e alle percentuali degli alleati sotto il 3%. Ma se Renzi intende dare le carte anche dopo il 4 marzo, non da meno è il Cavaliere che ritarda l’indicazione del candidato-premier di FI perchè non vuole dividere con nessuno il successo e tantomeno designare in questo modo una sorta di numero-due. Anche Di Maio non molla, ma il contributo del candidato premier grillino potrebbe venire dal corposo numero di espulsi che andranno a comporre lo schieramento dei responsabili che saranno sin dal primo giorno di legislatura ferocemente contrari ad ipotesi di nuove elezioni.
LE SFUMATUREIl risiko del dopo è già iniziato e da un paio di giorni il ministro dell’Interno Marco Minniti evoca governi «di unità nazionale» che sostiene essere cosa diversa dalle larghe intese. Sfumature, forse, se non fosse che una parte del Pd vorrebbe recuperare il rapporto con gli scissionisti e non guardare solo a FI. Dentro LeU non tutti inseguono i grillini come Pietro Grasso. A D’Alema i grillini piacciono molto poco ed è convinto di poter giocare un ruolo per rimettere insieme la ditta qualora il Pd decidesse di archiviare Renzi. L’esigenza di dover mettere mano alla legge elettorale che non produce governabilità, potrebbe essere un buon motivo per cominciare a parlarsi e mettere su una sorta di governo di scopo destinato poi a durare chissà quanto. Partite incrociate destinate a creare forti fibrillazioni nei partiti e nelle coalizioni. Nel centrodestra si lascia le mani libere anche Matteo Salvini che non firma il patto anti-inciucio proposto dalla Meloni e si prepara a mettersi alla finestra sperando che l’eventuale accordo Pd-FI gli consegni al prossimo giro altri spezzoni di elettorato forzista. C’è però l’incognita Maroni che non si è candidato ma che potrebbe iniziare dopo il 4 marzo a dare filo da torcere a Salvini riposizionando parte della Lega su posizioni più di governo
Marco Conti
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MONICA GUERZONI, CORRIERE DELLA SERA 16/2 –
Hotel Parco dei Principi, mercoledì sera. Nella sala che un anno fa vide maturare la scissione del Pd ci sono oltre 300 persone tra manager, imprenditori, banchieri, professionisti e 12 ambasciatori (Brasile, Turchia, Malta, Repubblica Ceca...). Sul palco c’è Paolo Gentiloni, che ha chiesto ai vertici del Canova Club un incontro «rigorosamente» a porte chiuse. «Il confronto con Emma Bonino era aperto — racconta un dirigente dell’associazione — ma Palazzo Chigi ci ha obbligati a lasciare fuori i giornalisti». In assenza di telecamere e taccuini il premier disegna, a colpi di elogi, un ideale tridente con Marco Minniti e Carlo Calenda, tralascia di citare Matteo Renzi e, scusandosi per la «sfacciataggine», chiede una mano alla platea: «Concedetemi un piccolo spot. Se qualcuno di voi vive nel collegio di Roma 1, può votare per me». Gentiloni conferma che l’Italia dei «piccoli passi» sta venendo fuori dalla crisi e, sulle banche, intona una nota di vanto: «Il tema non è popolare, ma a voi posso dire che sono orgoglioso di aver contribuito a salvare i risparmi di tanti correntisti e azionisti». Sull’immigrazione rivendica la strategia di Minniti per fermare gli sbarchi, difende l’accordo con la Libia («Ha portato frutti») e sciorina nuovi dati, per dimostrare quanto sia cresciuto il numero dei migranti incentivati a tornare nei Paesi di origine. L’altra punta del tridente è Calenda, al quale Gentiloni rivolge una lode via l’altra per la crescita degli investimenti, grazie al Piano impresa 4.0. La grande sintonia tra i due è cosa recente e si è andata rafforzando nelle ultime settimane, dopo che la «strage» di non-renziani nelle liste elettorali ha raffreddato i rapporti del leader del Pd con Minniti e «il candidato nel collegio di Roma 1», per dirla con la formula coniata da Renzi. Oggi Calenda sarà all’iniziativa «Con Roma per Gentiloni», a conferma di un gioco di sponda che guarda al dopo elezioni. «Palazzo Chigi non è la mia partita e, se dovessi scegliere un premier, indicherei Paolo», ama ripetere Calenda. Berlusconi li tiene d’occhio e ieri ha definito il ministro dello Sviluppo «capace» e il premier «avveduto e gentile». In caso di stallo il leader di Forza Italia lascerebbe all’attuale premier la guida di un governo ponte verso nuove elezioni. E il segretario del Pd? «Qui Gentiloni ha parlato come se Renzi non esistesse...», sorride Dario Pasquariello, segretario dell’Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti). Ma Roberto Giachetti a distanza smentisce rivalità: «Il ruolo che Paolo sta giocando è concordato con Matteo. Lui è per la squadra, non ha mai lavorato per fregare qualcuno». Minniti a Porta a Porta assicura che non ha nulla da rimproverare a Renzi: «Sulle liste si discute, poi c’è la partita elettorale in cui si combatte e si fa gioco di squadra». Ma il match è in salita e per Gentiloni, che stasera sarà a Otto e mezzo su La7 con Lilli Gruber e Paolo Mieli, l’affanno è dovuto alla scissione. «Se si addizionassero i valori di Leu a quelli del Pd — ha detto alla Süddeutsche Zeitung — staremmo dove eravamo prima».