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 2018  febbraio 16 Venerdì calendario

Il bavaglio di Abu Mazen silenzia media e social

Da qualche settimana i giornalisti palestinesi hanno deciso di ricominciare la loro campagna contro l’aggressione dell’Autorità palestinese alla libertà di espressione. Complice l’ultima vittima, Tareq Abu Zeid. Un giornalista accusato di «incitamento» e di «mettere in pericolo la sicurezza dello Stato della Palestina».
Lo scorso giugno Abu Mazen presidente dell’Autorità palestinese (Ap) ha firmato una strana legge sulla criminalità informatica palestinese. Una nuova legge nata dal tentativo di mettere a tacere e intimidire giornalisti e oppositori politici dell’Ap e del suo presidente.
All’articolo 4 del testo di legge che non ha neanche un anno si può leggere: 1. Qualsiasi persona che abbia violato intenzionalmente e illegittimamente un sistema o una rete elettronica, che abbia abusato di qualsiasi tecnologia informatica o anche di una parte di essa, o che abbia violato l’accesso autorizzato, è passibile di pena detentiva, una multa dai duecento ai mille dinari giordani o una combinazione tra le due sanzioni. 2. Se l’atto specificato nel paragrafo (1) di questo articolo è commesso contro qualsiasi dichiarazione ufficiale del governo, il colpevole sarà punito con la reclusione per un periodo di almeno sei mesi, o con una multa non inferiore a duecento dinari giordani.
Continuando, nel medesimo articolo della legge si può leggere che se l’«abuso» riguarda le informazioni del governo, la sentenza prevede «un minimo di cinque anni di lavoro forzato temporaneo e occorrerà pagare una multa non inferiore a 5mila dinari giordani...». L’articolo 20 poi recita: 1. Chiunque crei o gestisca un sito web che mira a pubblicare notizie che mettano in pericolo l’integrità dello stato palestinese, l’ordine pubblico o la sicurezza interna o esterna dello Stato, sarà punito con la reclusione per un periodo di almeno un anno o con una multa di non meno di mille dinari giordani e non più di cinquemila dinari giordani o da una combinazione di entrambe le pene. 2. Qualsiasi persona che propaga il tipo di notizie di cui sopra con qualsiasi mezzo, compresa la trasmissione o la pubblicazione, deve essere condannata a un massimo di un anno di carcere o costretta a pagare una multa non inferiore a duecento dinari giordani e non oltre mille dinari giordani o essere sottoposti a entrambe le pene.
La nuova legge, che mina la libertà d’espressione, la libertà di pensiero e i diritti umani ha già mietuto le sue vittime.
Una decina di giorni fa, la corte di un magistrato palestinese a Nablus – la più grande città palestinese della Cisgiordania – ha deciso di deferire il caso di Abu Zeid al Tribunale penale generale dell’Autorità palestinese. Abu Zeid è stato arrestato nell’agosto del 2017, ed è rimasto in carcere per quindici giorni, perché avrebbe criticato su Facebook l’Ap. Se sarà condannato, è probabile che non gli verrà fatto alcuno sconto né per la multa né per l’anno di galera.
Prima di lui, altri quattro giornalisti palestinesi sono stati arrestati dall’Ap, colpevoli di «crimini» simili. Ma anche per loro il destino è ancora incerto: non si sa quando saranno processati. Mamdouh Hamamreh, Kutaiba Qassem, Amer Abu Arafeh e Ahmed Halaikah vivono da mesi ormai i loro giorni da incubo, e non sono i soli. Recentemente sono diversi i giornalisti e tanti gli utenti di Facebook che sono stati convocati per gli interrogatori perché «sovversivi». Troppe parole fuori posto. E quindi tante spade di Damocle a pendere sulle loro teste, in un destino che vede professioni e vite chi porterà il pane a casa se questi padri di famiglia finiranno in gattabuia? messe a repentaglio.
Intanto si azzardano piccole manifestazioni, dal mondo del giornalismo fino alle aule di tribunale: pare che gli avvocati palestinesi abbiano deciso di boicottare la corte specializzata in reati gravi commessi contro la sicurezza dello «Stato della Palestina». Ma figuriamoci se qualche striscione potrà mai suggestionare l’Autorità palestinese.
Le vaghe definizioni di ciò che costituisce un reato punibile, l’estensione della pena a qualsiasi individuo che assiste o concorda con ciò che il decreto considera un crimine e i chiari attacchi a dissidenti, giornalisti e divulgatori disegnano il profilo sempre più autoritario, che gode di un supporto «legale» utile a reprimere efficacemente qualsiasi forma di dissenso.
Eppure la nuova forma di repressione messa a punto dall’Autorità Palestinese non può sorprendere. La repressione, e in particolare la repressione della libertà di espressione, è peculiarità della leadership palestinese sin dalla sua fondazione. È dal 1994 che, dapprima con Arafat, e poi con Abu Mazen, l’Ap ha dimostrato di avere tutte le caratteristiche tipiche di una dittatura araba: colpire con ostentata indifferenza la stampa e gli oppositori politici. L’Ap non può tollerale quello che definisce come «incitamento», ovvero la critica ad Abu Mazen e alla sua politica. Ma c’è un «incitamento» che invece tollera, e pure con un certo entusiasmo, quello diretto da sempre contro Israele e gli Stati Uniti. L’uno è ricompensato con la repressione; l’altro con la gloria.
D’altronde, la soppressione della libertà di espressione è solo il corollario perfetto dell’odio per Israele e della violenza come parte del Dna di parte della comunità palestinese.
Quando un rabbino è stato ucciso, all’inizio di gennaio, a colpi di arma da fuoco, vicino a Nablus, i palestinesi hanno accolto con estremo piacere la notizia. Una morte che rientra in quelle operazioni militari considerate «eroiche», perché contro l’occupazione israeliana, e inserite nel rilancio della rivolta contro Gerusalemme capitale. La vittima, infatti, era perfetta: un ebreo, rabbino, padre di sei figli. E l’attacco eroico e motivo di orgoglio non è stato condannato dall’Autorità palestinese e dal suo leader, perché semplicemente rientra nel perverso meccanismo d’incitamento all’odio anti-israeliano.