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 2018  febbraio 16 Venerdì calendario

In morte di Bibi Ballandi

Se c’è un manager e produttore che avrebbe meritato di vedere la sua stella e il suo nome in un’ipotetica “Walk of fame” italiana, quello era Bibi Ballandi, morto ieri a Imola a 71 anni, la maggior parte dei quali passati nel mondo dello spettacolo.
Quella di Ballandi è stata una delle personalità più importanti dello show business italiano degli ultimi quarant’anni. Più che un produttore per i suoi artisti era un amico, un fratello maggiore, un papà, a seconda delle stagioni della sua vita. Tante stagioni, perché aveva iniziato quando di anni ne aveva solo diciotto, quando si mise a lavorare con Gigliola Cinquetti che di anni ne aveva solo quindici. E del fratello maggiore o del babbo aveva i modi, il tono, l’aria. Ballandi era principalmente pacato (ma anche ferreo quando serviva) e bonario, amava gli artisti che lavoravano con lui, artisti che, usava dire, «bisogna ascoltare, aiutare, sostenere. Soldi e cachet vengono dopo, prima di tutto ci deve essere l’affetto, la stima, la fiducia». In tanti hanno dato fiducia a Ballandi, alcuni sono stati veramente suoi amici, come Lucio Dalla ( fra i primi) o Rosario Fiorello ( «Io sono il babbo che gli è mancato presto, lui il figlio che non ho mai avuto» ), moltissimi hanno stabilito con lui un rapporto che era impossibile costruire con altri manager, produttori o impresari. Perché la sua regola numero uno era quella di proteggere e difendere gli artisti. Ma anche fare soldi con loro: «Non appena un’artista guadagna qualcosa fategli comprare un appartamento.
Da quel momento avrà bisogno di soldi e lavorerà più volentieri», diceva ridendo.
Democristiano nel cuore, equilibrato in politica, fedele negli affetti, saggio negli affari, Ballandi ha costruito pian piano un impero, prima nelle strade e nelle piazze dove portava i suoi spettacoli, assieme al padre Iso.
Lui aveva la terza media, il padre faceva il tassista, insieme decisero di cambiare vita e di iniziare ad accompagnare gli artisti con la loro automobile.
Ci misero poco a entrare in relazione con i cantanti, a conquistare la loro fiducia e a iniziare ad organizzare serate e spettacoli. L’amicizia con Dalla gli fece portare per la prima volta la musica negli stadi con Dalla e De Gregori e il loro tour Banana Republic, poi nella riviera romagnola dove fece sventolare la sua Bandiera Gialla, leggendaria discoteca di Rimini, dal 1983, e quindi in televisione, dove approdò alla fine degli anni Settanta ma dove cominciò a “regnare” dalla fine del decennio successivo.
Di locali ne aprì anche un altro, il Variety, passato alla storia perché nelle sue stanze, una settimana circa dopo l’apertura, fu arrestato Vasco Rossi nel 1984. L’amicizia del rocker con Ballandi era nata molti anni prima.
Di successi ne ha costruiti un’infinità, ma diceva sempre che il merito della sua fortuna era la lunga gavetta e se doveva dispensare un consiglio a un giovane artista gli diceva di laurearsi, imparare a cantare, ballare e recitare, senza pensare ad altro. Sobrio ed elegante, in grado di fuggire alle luci della ribalta («Stare bassi per schivare i sassi» amava dire), privo di qualsiasi forma di vanità personale, Ballandi era sornione, sapeva ascoltare, ma anche imporre la sua volontà; aveva uno straordinario fiuto nel comprendere gli artisti e difficilmente sbagliava nelle sue valutazioni; ma era anche un abile politico, in grado di destreggiarsi nel continuo valzer delle poltrone della Rai e di restare in sella con la sua casa di produzioni. Tutti i più grandi personaggi dello spettacolo televisivo e musicale italiano hanno lavorato con lui, da Mina a Celentano, da De André a Morandi, da Antonella Clerici a Panariello, da Raffaella Carrà a Milly Carlucci, da Renato Zero a Simona Ventura, fino a Mika e Paola Cortellesi, solo per citarne alcuni di un elenco che sarebbe troppo lungo da riportare. Era un produttore “vecchio stampo”, di quelli che puntavano al meglio sempre e comunque, e che proprio per questo era capace di lavorare con artisti di estrazione molto diversa, anche lontanissimi culturalmente da lui e dal suo universo. Universo in cui la fede contava moltissimo ( «Non ho mai perso una messa» ), nel suo ufficio c’erano le foto di Papa Wojtyla, di Papa Benedetto XIV e di Papa Francesco. Ma non era un bacchettone, anzi, sapeva godere della vita e degli incontri con mondi diversi dal suo. Non a caso fu lui che portò Bob Dylan a cantare per Papa Giovanni Paolo II al Congresso Eucaristico del 1997 a Bologna: «Alla fine il Papa mi fece i complimenti».
Non c’erano solo la televisione e la musica nel suo universo, ma anche il teatro, con Mariangela Melato e Flavio Insinna, e il mondo dei documentari, per i quali aveva aperto un’altra casa di produzione.
Nel 2005 si era ammalato e ha iniziato una lunga guerra contro il cancro, fatta di molte battaglie vinte e di altrettante perse.
Ma non aveva mai mollato il lavoro, gli artisti, gli amici, aveva continuato a immaginare spettacoli, a produrre show come quello acclamatissimo di Roberto Bolle dello scorso capodanno. Con lui scompare un modo di produrre spettacolo di cui si sentirà la mancanza.
La sentiranno soprattutto gli artisti che in lui hanno trovato un sostegno e uno stimolo straordinari.
La famiglia, che ha scelto di donare le cornee, ha comunicato che oggi e domani mattina a Imola ci sarà la camera ardente nella Sala dell’Annunziata, poi sempre sabato i funerali a Baricella.