la Repubblica, 16 febbraio 2018
I treni perduti da Pamela prima del buio
MACERATA ROMA Pamela su Kyra, il suo cavallo preferito, Pamela a mare nella villetta di Santa Marinella, Pamela piccolina con le treccine, Pamela che soffia le candeline sulla torta di compleanno, Pamela che suona la chitarra. Pamela con la mamma in vacanza a Londra, a fare jogging, a mangiare sushi. E l’ultima foto di famiglia nella comunità sulle colline di Corridonia. Era il 18 gennaio, appena 12 giorni prima che questa ragazza fragile e inquieta, fuggita per ritornare a casa, perdesse per qualche minuto il treno per Roma e finisse nelle mani di tre spacciatori nigeriani.
«Per quanto un genitore si possa impegnare ci sono cose che non si possono controllare. A noi è caduto il mondo addosso», si tormenta Alessandra Verni, la giovane mamma che ha trasformato il letto di sua figlia in un piccolo altare, il copriletto rosso tappezzato di decine di foto che racchiudono 18 anni di vita, i peluche, il foglio di quaderno con la più semplice delle dichiarazioni d’amore: “Buongiorno mamma” e un cuore disegnato.
La stanza di Pamela, nell’appartamento di via Saluzzo, è senza mobili. I nonni volevano rifargliela nuova, sarebbe stata una sorpresa quando, il 4 marzo, sarebbe tornata a casa per quel suo primo voto da 18enne. E invece proprio la fine atroce di un’adolescente con un disagio sfociato in dipendenza, a cui si è aggiunta la folle caccia al nero del fascio-leghista Luca Traini, ha trasformato Pamela Mastropietro in un caso che ha cambiato il corso della campagna elettorale. Con una famiglia straziata che ora «pretende che lo Stato faccia giustizia, per Pamela e per tutto il mondo civile» ma che, da subito, si è rifiutata di farsi strumento di campagne di odio razziale e che intende difendere il «volto pulito» di una ragazza che – dice lo zio avvocato Mauro Valerio Verni – «poteva essere la figlia, la sorella, la nipote, l’amica di tutti».
Ed eccola allora la storia di Pamela prima di quel lunedì 29 gennaio in cui riprende il trolley con cui è arrivata e lascia la Comunità Pars di Corridonia dove era entrata tre mesi prima. Nessun contesto familiare disagiato, nessun quartiere degradato. Via Saluzzo, piazza Re di Roma, Tuscolano.
Pamela lì è cresciuta e ha fatto le scuole, lì si ritrovava con gli amici e ha vissuto i suoi primi amori fino a quello, disgraziato, che l’ha portata sulla strada delle droghe pesanti. Una famiglia piccolo-borghese, mamma parrucchiera, zio avvocato, nonna archeologa.
«L’ho avuta che avevo 20 anni e, ultimamente, ci scambiavano per sorelle. Ma lei era più bella e più alta. Faceva la vita di ogni ragazza, studiava e praticava sport, aveva iniziato con la danza ma era appassionata di cavalli. Proprio la domenica prima di entrare in comunità, lo zio l’aveva portata a cavallo. Una ragazza piena di vita, intelligente, solare che purtroppo ha avuto un periodo sfortunato».
Alessandra, la mamma, vuole ricordarla così Pamela. Che però il suo fuoco interiore, aveva cominciato a manifestarlo molto presto, alle scuole medie di via Ceneda. Nel suo diario su Facebook, già a 13 anni, Pamela scrive: «Sento che qualcosa sta cambiando e solo l’idea mi spaventa». Non ha molta voglia di studiare questa ragazzina che sui social manifesta la sua aggressività, litigando con le amiche che cercano di rabbonirla per le sue intemerate scolastiche.
All’Istituto Luigi Petroselli dove frequentava un corso per estetiste si è fatta bocciare subito.
Problemi che, spesso in gruppo, si affogano in superalcolici, spinelli, droghe leggere e pastiglie. «Su i bicchieri, giù i pensieri», «E poi ci sono quelle sere in cui pensi al passato e tutto il male ti risale come l’alcol che hai mischiato», «Smetterò di fumare quando la realtà sarà più bella dei miei viaggi». Le serate al muretto di piazza Re di Roma, i pomeriggi al parco di villa Lazzaroni, le serate in discoteca o al Qube con Sharon, Flaminia, Sofia, le amiche di sempre, a condividere segreti e delusioni d’amore, il vuoto dentro. Questa è la vita di Pamela dai 13 ai 16 anni. Con quella spina nel fianco dei due giovanissimi genitori separati. «Il regalo più bello, cenare con mamma e papà dopo anni», scrive la vigilia di Natale di tre anni fa.
Poi l’incontro con Andrej, bulletto di quartiere, sedicente pugile, finito presto ai domiciliari.
Stefano Mastropietro, il papà, non si dà pace: «Si è innamorata di questo ragazzo più grande di lei che faceva uso di droghe. Voleva farlo uscire da questa dipendenza e invece ci si è ritrovata dentro».
Come più di 2700 ragazzi tra i 15 e i 20 anni che a Roma fanno uso di sostanze stupefacenti e sono in carico ai Serd, i servizi per le dipendenze della Asl. Una fascia d’età a cui appartiene ben il 30 per cento degli oltre 9.000 tossicodipendenti della Capitale, un numero in crescita. «La sostanza che viene usata di più è, nel 65 per cento dei casi, l’eroina – dice Claudio Leonardi, direttore dell’Unità Patologie da dipendenza della Asl 2 – Nei consumatori compresi nella fascia d’età tra i 15 e i 20 anni questa percentuale si dimezza».
Pamela non si bucava, ne sono certi la mamma e lo zio. «Aveva la fobia degli aghi. La traccia che le avrebbero trovato sul polso le è stata procurata da qualcun altro.
Non aveva voglia di tornare a bucarsi come ha scritto qualcuno». Che Pamela fosse nei guai, però la famiglia lo ha capito subito e non ha perso tempo nell’intervenire. «È cambiata – racconta la mamma – e abbiamo tentato di correre ai ripari chiedendo aiuto anche alle istituzioni. Ma ci siamo scontrati con tanta inefficienza e pressappochismo». La decisione di ricorrere alla Pars di Corridonia è arrivata d’intesa con il Serd e con il consenso di Pamela. Alessandra, Stefano, i nonni ne sono certi: «Pamela voleva essere aiutata ed era contenta di avere iniziato il percorso di recupero. Aveva una patologia borderline e questa comunità cura proprio le patologie psichiatriche associate a dipendenza».
La Pars è una delle poche strutture in Italia in grado di affrontare «un caso delicato come questo», spiega Luca Doria, l’educatore che cura la fase che precede l’inserimento e va a Roma ad incontrare Pamela mentre è ospite del Cto Alesini, un reparto psichiatrico per adulti. «La gravità della situazione la evinci da lì», dice Luca che spiega le regole della comunità. Un percorso impegnativo che dura due anni: niente cellulare, dodici sigarette al giorno, telefonate con i familiari programmate e visite ogni 45 giorni, salvo permessi speciali. Chi entra, accetta di condividere la vita della comunità. Ti rifai la camera, aiuti nei lavori domestici, lavori nei campi in stagione o in laboratorio per le confetture. Se vuoi uscire dal casale a fumarti una sigaretta avverti, se vuoi fare una passeggiata qualche operatore ti accompagnerà. «Ma chiunque può andarsene quando vuole, le porte sono aperte».
Pamela ascolta, pare convinta.
Non ne può più di quella vita di eccessi, di botte, di droga, di alcol fino a stordirti. «Tutti dipendiamo da qualcosa per dimenticare il dolore», aveva scritto su Facebook. «Voglio farcela, voglio stare bene», dice all’educatore.
Dal Cto ad una clinica che dovrà fare da ponte prima dell’ingresso in comunità. Pamela resiste pochissimo, apre la porta e se ne va. Si rifà viva con la Pars dopo qualche settimana, sembra stare meglio. Ha appena compiuto 18 anni, «ma ha la mente di una bambina di 13 e il vissuto che nemmeno una 30enne». Stavolta con lei c’è la nonna, nominata sua tutrice. È l’occasione della vita, Pamela sembra saperlo e il 18 ottobre, quando arriva a Corridonia, è un fiore.
«Sorridente, positiva, ben vestita, curata», la descrive l’assistente sociale Francesca Fuselli.
Stanza a due letti, con una compagna appena più grande. Per il primo mese c’è la voglia di provarci. Ma dura poco. «È la cucciola del gruppo – dice Josè Berdini, il responsabile della Pars – È apparentemente sicura di sé, forte ma triste dentro». La sua storia d’amore con quel ragazzo difficile è finita, dice. Chiacchiera delle cose che piacciono alle ragazzine, il rap e i vestiti. A volte lavora nel laboratorio, attacca le etichette alle marmellate. Dura poco, però.
Presto il tarlo ricomincia a rosicchiarla dentro: «Basta, me ne vado». Quel dolore che la devasta da quando è bambina e che ha cominciato a raccontare agli psicologi adesso riemerge possente. È dicembre, sono trascorsi due mesi. A Natale c’è la visita dei genitori, ma quando vanno via pian piano la situazione peggiora. Pamela sta male davvero, vomita quasi tutti i giorni. «Per questo a gennaio abbiamo deciso di chiamare la famiglia: era ora di darle un permesso speciale». Mamma e nonna vengono a prenderla il 18.
Tre giorni dopo la riportano in comunità e lei è «molto sulle sue». Lunedì 29 gennaio sceglie l’ora del riposino dopo pranzo, quando c’è meno movimento, prepara il trolley e si incammina sulla lunga strada poderale che porta alla Provinciale. Un operatore la vede e le corre dietro a piedi. «Pamela, dove vai? Ti accompagno io, aspettami. Non andartene così, chiamiamo i tuoi e ti fai venire a prendere, che dici?». Tutto inutile. «Teneva lo sguardo basso, decisa e forte come sempre. Non ha detto una sillaba», spiegano alla Pars.
Quando l’operatore ha capito che non l’avrebbe convinta a tornare con lui è corso indietro a prendere un’auto, ma Pamela non c’era già più.
Sua madre ne è convinta: «Pamela voleva finire il percorso, voleva riprendersi la vita, voleva ricominciare a studiare. Il suo sogno era fare la criminologa.
Aveva chiesto allo zio di essere aiutata a scrivere la sua storia attraverso un personaggio immaginario per dare speranza ad altri ragazzi, per dire loro che, se si cade, ci si può rialzare. Ci si deve rialzare».