Corriere della Sera, 16 febbraio 2018
Gagliardi, l’angelo del Duomo che ridona vita a santi e profeti
Giugno 1990. Nell’abside del Duomo di Milano, alla statua numero 227 della fine del XVI secolo, alta circa due metri, che rappresenta un profeta, manca la mano destra e parte dei due calzari. In più, la parte posteriore è deturpata da una serie di incrostazioni. Rimosso, il Profeta raggiunge il cantiere marmisti, dove – visto che restauro e consolidamento sarebbero vani – si decide di farne una copia. Come? Certamente non un calco. Uno scandaglio negli archivi permette di ricostruirne la storia, di scoprirne l’ anima e di «creare una nuova opera d’arte» nel rosato-carnacino del marmo di Candoglia. Tempo necessario, in questo caso, circa dieci mesi. E così nel maggio del 1991, il Profeta rientra nell’abside. L’originale andrà nei depositi della Veneranda Fabbrica del Duomo, la «fabbriceria» istituita nel 1387 – l’anno dopo l’inizio dei lavori della cattedrale (come ricorda una lapide posta all’interno del Duomo) – destinata a coadiuvare ogni necessità del nuovo complesso cristiano, nato, com’è noto, sulle ceneri di due cattedrali preesistenti: quella invernale di Santa Maria Maggiore e quella estiva di Santa Tecla.
È andata meglio al profeta Isachab, statua numero 226, alta 2 metri e dieci centimetri (del 1563), sempre dell’abside. Infatti non è stata necessaria la sua sostituzione ma un «restauro consolidante»: pulizia da varie incrostazioni e ricostruzione, con resine speciali, di viso e barba nelle parti corrose. Un paio di mesi di lavoro. Rimosso nel settembre 1992, il Profeta Isachab è tornato al suo posto a novembre.
Due esempi, su centinaia, del lavoro necessario per risuscitare non solo le statue (se ne contano 3.400, di cui 2.300 all’esterno), ma anche guglie (ben 132), doccioni (150 bocche d’acqua), capitelli, fiocchi e gattoni (simili a merletti), ornati vari della facciata. Un lavoro per il quale non esiste la parola «fine».
Per alcune decadi i nomi degli scultori che hanno lavorato (spesso con interventi preventivi) alla ricostruzione o sostituzione delle statue – la prima risale al 1885, con il rimpiazzo di Paride – sono rimasti annotati solo nell’archivio della Veneranda Fabbrica. I contributi erano sempre diversi perché diverse le generazioni che si alternavano e, quindi, anche tecniche e sensibilità.
Adesso, invece, s’è deciso di dedicare un libro, Scolpire il cielo (Edizioni Et), allo scultore-artigiano Nicola Gagliardi, che, da 35 anni, «come un maestro comacino», replica la statuaria del Duomo. Testi di Gianantonio Borgonovo, Alberto Artioli, Pierluigi Lia, Giulia Benati, Maddalena Peschiera e Camilla M. Anselmi.
Copiare vuol dire anche creare? Nel caso di Gagliardi, certamente. Originario di San Vittore Olona (1944), lo scultore ha sempre respirato la polvere di marmo, così come il nonno e il padre. Dopo l’Accademia di Brera, finita nel ’67, si dedica a scolpire in proprio (ricordate la mostra, nel ’66, alla Rotonda della Besana?), al restauro di marmi ( La marchesa Virginia Busti Porro di Vincenzo Vela), monumenti (l’ Arlecchino di Villa D’Almè, della Comunità della Val Brembana), altorilievi ( Vergine Annunciata di Alceo Dossena per il Poldi Pezzoli), bronzi ( Monumento al guerriero di Enrico Butti), terrecotte ( L’uomo antico di Adolfo Wildt), e così via. Dall’84, Gagliardi inizia la sua collaborazione con la Veneranda Fabbrica del Duomo, per la quale sino ad oggi ha scolpito 150 opere in marmo di Candoglia (di cui 23 per la facciata, fra cui San Luca Evangelista e San Filippo Apostolo ).
Replicare significa «ridare vita» alle sculture, soggette ad erosioni dovute, una volta al tempo e, in epoca moderna, soprattutto all’inquinamento atmosferico (piogge acide). Le cause? Sbalzi di temperatura; dilatazione termica del marmo – spiega Alberto Artioli, già sovrintendente per i Beni architettonici della Lombardia —; l’acqua piovana e di condensa all’interno, che si infiltra e ristagna nelle «croste nere» facendole staccare e portando via il modellato; la cristallizzazione; gli agenti biologici come alghe, licheni, batteri, funghi; l’aggressione chimica del guano dei piccioni che genera microrganismi nocivi. E via dicendo.
Certo, alla fine, resta quello che Borgonuovo chiama il concerto corale e grandioso del Duomo (definito da Artioli «un archivio di pietra»), la cui «verticalità gotica e orizzontalità di tradizione lombarda», fa dire, quando si cerca di sintetizzare lo stile, che esso corrisponde a «un’idea di gotico». Al contrario dei marmi, il suo fascino non subisce erosioni. Viene in mente l’ammirazione incondizionata di Mark Twain per la cattedrale. «Si dice che il Duomo di Milano venga solo dopo San Pietro in Vaticano – scrive l’autore de Il principe e il povero —. Non capisco, però, come possa essere secondo a qualsiasi altra opera eseguita dalla mano dell’uomo».