La Stampa, 16 febbraio 2018
Carlo Petrini: Ogm, resto cauto su certi prodotti ma questa è un’ottima notizia
Carlo Petrini, gli scienziati italiani dicono che il mais transgenico non fa male alla salute. Come accoglie la notizia chi, come lei con Slow Food, ha sempre fatto della lotta agli Ogm un cavallo di battaglia?
«Con grande soddisfazione e sollievo. La fonte è seria e i ricercatori che hanno condotto gli studi mi risulta che non siano di parte. Quindi, se i loro risultati verranno confermati anche dal mondo accademico internazionale, non possiamo che gioire di fronte a una bella notizia!».
Ma non è una smentita alle vostre posizioni contrarie?
«Noi non abbiamo mai detto che gli Ogm fanno male, ma che ci vuole un criterio di precauzione. Rispetto a molti prodotti, siamo venuti a sapere che erano nocivi molto tempo dopo il loro utilizzo e non vogliamo che si ripeta lo stesso errore anche con le coltivazioni transgeniche. E poi questi risultati non esauriscono affatto i problemi intorno alla diffusione degli Ogm, anzi in un certo senso li amplificano».
Per quale motivo?
«Perché quel tipo di coltura è invasivo nei confronti dei vicini e non potrà restare confinato nella superficie del campo in cui viene utilizzato. Tanto più in un Paese come l’Italia, dove le aziende sono di piccole dimensioni e non ci sono barriere naturali sufficienti a proteggere le coltivazioni biologiche e convenzionali dalla contaminazione. Ma una diffusione, anche limitata, delle coltivazioni Ogm in campo aperto, cambierebbe per sempre la qualità della nostra agricoltura, annullando la nostra libertà di scegliere quel che mangiamo. Poi c’è un altro grande tema».
Quale?
«Il fatto che quel tipo di sementi è nelle mani di poche multinazionali sempre più forti. La concentrazione di potere nel settore dell’agricoltura sta aumentando a dismisura: queste grandi aziende non sono titolari solo del seme, ma anche dei pesticidi, delle reti di distribuzione e spesso anche di farmaci e prodotti sanitari. E questa non è una buona notizia né per i consumatori, né per i piccoli agricoltori che, oltre a garantire a milioni di persone di sfamarsi, hanno un ruolo fondamentale nella protezione dei territori, nella difesa del paesaggio e nel contrasto al riscaldamento globale».
Eppure le multinazionali promettono che gli Ogm salveranno il mondo dalla fame.
«Ma ciò non è affatto avvenuto: gli affamati continuano a crescere, di pari passo con i fatturati di queste aziende. Ci sono molti studi, altrettanto seri, che indicano vie alternative a sostegno dell’agricoltura di piccola scala e la Fao stessa ha una posizione molto prudente, non di parte, su questi temi e fa valutazioni sul rischio di concentrazione del potere in campo agricolo».
Una delle vostre parole chiave è biodiversità: si può coniugare con Ogm?
«I prodotti transgenici non hanno legami storici o culturali con un territorio. L’Italia basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali. Le colture geneticamente modificate, invece, impoveriscono la biodiversità perché hanno bisogno di grandi superfici e di un sistema monocolturale intensivo, come avviene in Paesi come il Brasile o l’Argentina. Se si coltiva un solo tipo di mais, si avrà una riduzione anche dei sapori e dei saperi. Noi non dobbiamo coprirci gli occhi di fronte alla scienza, ma questo mi sembra essere un modo miope e superficiale di intendere il progresso».