La Stampa, 16 febbraio 2018
Nella città dove sono nati i grandi marchi: Qui a Roubaix vive bene solo chi è povero
«Quando la mia famiglia arrivò qui dall’Abruzzo, nel 1956, fu un trauma, era tutto scuro, ciminiere ovunque, saremmo ripartiti subito se avessimo avuto i soldi per il treno. Invece a 14 anni lavoravo gia in una fabbrica di biancheria, era pieno d’italiani. Mio marito l’ho conosciuto lì, un napoletano vero, iniziava il turno alle 5 del mattino e nel pomeriggio vendeva gelati. Lui è morto, i figli sono altrove, mi resta la casa comprata con la nostra vita, 10 milioni di franchi. Ora però vogliono demolire tutti i vecchi edifici per riqualificare la zona, offrono 79 mila euro: o vendo o mi espropriano la casa».
Jolanda Iezzi siede nella sagrestia del Santo Redentore con il comitato di quartiere coordinato da Anne Lescieux, anima dell’università popolare dei cittadini. Succhi di frutta, bignè, la comune paura che il rilancio urbano significhi sloggiare per far posto ad artisti e start up. Siamo a Pile, banlieue estrema della già estrema Roubaix, 100 chilometri da Dunkerque, l’ex Manchester francese uscita a pezzi dalla de-industrializzazione e oggi in cima alla classifica della povertà: 91 mila abitanti di cui 39 mila al di sotto dei 900 euro al mese, almeno la metà della popolazione di origine straniera, la disoccupazione al 30 per cento contro il 10 della media nazionale che sale al 50 per cento tra gli under 30.
Arrivando in tram da Lille attraverso Croix, terzo Comune del Paese per patrimoni individuali, Roubaix mostra in realtà un’opulenza antica, i fasti dell’esposizione universale del 1911 di cui rimane traccia nella favolosa piscina pubblica stile liberty trasformata nel museo La Piscine. Poi, il centro: grigio, inquieto, brulicante di terziario fin quando calano la sera e l’oblio, con l’unico cinema deserto a marcare il gap tra la storia urbana e i suoi abitanti.«Chi lavora nei servizi viene da fuori, i giovani qui non hanno le competenze e stazionano in palestra a decomprimere la rabbia di una città ricca ma popolata di poveri», ragiona Ali Rahni, assistente sociale per i tossicodipendenti, la nuova emergenza da quando l’eroina ha surclassato l’hascish e nei quartieri come Little Italy sono comparse sentinelle anti polizia sul modello di Marsiglia. La borghesia è emigrata lasciandosi alle spalle le case vuote, deprezzate o molto popolari che oggi il sindaco juppeista Delbar vorrebbe recuperare tanto da aver messo in vendita 17 palazzine “anni Trenta” a 1 euro (ma vanno restaurate).
Roubaix è scissa tra il passato e i suoi superstiti. L’Usine outlet, con giacche da 600 euro per facoltosi belgi, e Action, il supermercato «tutto a 99 cent». Cartelli vendesi sulle abitazioni art nouveau con le finestre murate contro le occupazioni, e sotto un’umanità persa, nasi rossi e mani screpolate, piumini leggeri, sebbene la prestigiosa K-way sia nata qui come anche Auchan, La Redoute, la fortuna del magnate del lusso Arnaud.
«Nella prima metà del 900, con l’arrivo dei migranti, gli industriali si spostarono da Roubaix a Croix e quando negli anni ‘70 l’età aurea del tessile finì, non investirono ma delocalizzarono, abbandonando la città alla disoccupazione che affligge le famiglie da tre generazioni» riflette Chantal Petillon, storica dell’università di Valenciennes e autrice di un corposo saggio sulla popolazione di Roubaix. All’epoca degli operai la nazionalità restava sullo sfondo: il cambio di stagione ha prodotto un vuoto da colmare con identità alternative, etniche, religiose. Nel libro “Passion francaise” Gilles Kepel descrive Roubaix come «uno degli assi di penetrazione del salafismo in Francia», la meta degli islamisti in fuga, dalla guerra civile algerina alla Bosnia fino alla generazione Bataclan. Decenni in cui la città anticipava il presente miscelando delinquenza a jihadismo come nel caso della gang di Roubaix, una banda di criminali comuni imbevuti di qaedismo che impazzò negli anni ‘90. «Qui si prega e basta», taglia corto Mohammad all’ingresso della moschea Wa’da, un tempo nel mirino dell’intelligence, poi chiusa per ristrutturazione e adesso resa al quartiere Alma, 50 nazionalità e un tasso di votanti del 13 per cento.
Il concetto di ghetto è ambiguo quando hai una rete di trasporti che in 20 minuti ti porta nella vivace Lille, feudo di Martine Aubry, la madrina delle 35 ore. «La gente non si sposta perché si sente diversa nei modi, negli abiti» spiega il sociologo Julien Talpien. L’esclusione ha reciso anche la storia politica di una comunità un tempo socialista e ora allergica alle urne o tentata dagli estremi. «Pochi ammettono di sostenerci ma cresciamo», stima il delegato del Fronte Nazionale Julien Franquet. La città è passata dal 67 per cento di Hollande 2012 al 26,5 di Le Pen 2015 fino al trionfo di Melenchon, la sinistra radicale che a giugno ha ottenuto il 35,85. Il FN fatica perché gli stranieri fanno muro. «Melenchon prende migranti e borghesi, noi operai, insegnanti, disoccupati, giovani, chiunque sia stanco di droga, islamismo, di un sindaco “di destra” che affronta con la pedagogia i problemi di sicurezza. Qui se sei omosessuale non ti fai neppure vedere in giro».
Il sindaco si dice impegnato, vorrebbe che emergessero le cose positive anziché le difficoltà. La città in realtà poggia sull’associazionismo, tanto, capillare, propositivo, gruppi-studio per bambini, attività per anziani, centri anti violenza. «Roubaix è un ottimo posto dove vivere se sei povero», ammette il consigliere Mehdi Massrour, epigono di quel partito socialista al 5 per cento che in serata, nella piccola sede con la rosa nel pugno, si ritrova con una ventina di membri a parlare di futuro. La signora Jolanda non c’e.