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 2018  febbraio 15 Giovedì calendario

«Io, scrittore-spia dall’identità segreta». Intervista a Andy McNab

LONDRA Ci sono scrittori che si fanno intervistare per telefono perché indisposti, irraggiungibili o frettolosi. Andy McNab lo fa per non mostrare la faccia. Quando è costretto da esigenze di marketing ad andare in tv, si copre il volto per non farsi riconoscere.
«Non è paura», dice al telefono. «È prudenza. L’ultima minaccia concreta l’ho ricevuta diciotto mesi fa, ma il mondo è pieno di pazzi e fanatici. La cautela non guasta». Gli autori di thriller con un passato da spia hanno una tradizione illustre: Ian Fleming, Graham Greene, John Le Carré.
Ma lui è uno dei pochi romanzieri, se non l’unico, con un passato nelle forze speciali. E non forze speciali qualsiasi: le Sas, acronimo di Special Air Services, i leggendari commando dell’esercito britannico, considerati i migliori e i più duri di tutti. Con i quali ha servito, riportando a casa medaglie, ferite e preziosi ricordi, in operazioni clandestine in mezzo mondo, dai conflitti del sud-est asiatico alla giungla sudamericana dei narcos, dalla guerra civile in Irlanda del Nord alla guerra in Iraq. Il resoconto della sua ultima missione in Iraq, fallita, conclusa con la cattura e tortura da parte delle truppe di Saddam Hussein, sino alla rocambolesca fuga nel deserto con un manipolo di commilitoni sopravvissuti, è diventato il suo primo libro, Bravo Two Zero, bestseller internazionale da cui è stato tratto un film. Da allora scrive romanzi, sceneggiature, consulenze per videogame militari. Adesso arriva in libreria Medaglia al valore, quindicesimo titolo della sua serie su Nick Stone, un sergente delle Sas piuttosto autobiografico (Longanesi). L’occasione per intervistarlo. Al telefono. Chiama lui, naturalmente. Da un numero non rintracciabile.
Andy McNab è uno pseudonimo, incontrarla è impossibile: sono proprio necessarie tutte queste precauzioni?
«Non è scena e non sono un paranoico. In realtà vivo in modo abbastanza normale. Non ho paura.
Ma qualche attenzione è necessaria, per me e per la mia famiglia».
Un vero commando non conosce la paura?
«Al contrario, la conosce e impara a usarla, perché ti dà l’adrenalina che serve a non sottovalutare un pericolo. I soldati o gli agenti segreti che dicono di non avere mai avuto paura mentono, oppure non sono mai stati in situazioni veramente pericolose».
Come quelle che ha vissuto lei e che poi trasporta nei suoi libri.
Anche l’ultimo è basato su sue esperienze personali?
«È un amalgama di cose che ho vissuto, visto, sentito dai miei colleghi. Per esempio in Colombia, in una missione clandestina, mi capitò di vedere un uomo gettato dal tetto di un palazzo. Al cinema queste cose suscitano immediata reazione, la gente intorno se ne accorge subito, tutti gridano o si spaventano. Nella realtà è diverso.
Passano 5-6 secondi prima che la mente umana registri l’orrore. E ognuno è preso dalle proprie cose, fatica a credere di ritrovarsi testimone di una violenza. È questo realismo che io cerco di mettere nei miei romanzi».
Dunque detesta gli 007 alla James Bond o le missioni impossibili di Tom Cruise?
«Ma no, mi piacciono. Sono intrattenimento ben confezionato.
E costoso, con tutti quegli effetti speciali. Almeno ti senti ripagato dal prezzo del biglietto».
Scrivere è stata una terapia per superare la sindrome dei veterani di guerra?
«Sono tra i fortunati che non ne hanno sofferto. Ma è provato che scrivere aiuta a rilasciare emozioni represse. E alcune delle più belle pagine di poesia e letteratura inglese sono opera di ex soldati».
Lei ha un passato difficile: orfanotrofio, piccola criminalità.A scuola era bravo a scrivere, almeno?
«Ero pessimo. Quando mi sono arruolato nell’esercito, a 17 anni, mi certificarono con un’alfabetizzazione da undicenne.
La mia scuola sono state le forze armate. Pensavo che fossero solo marce e armi, invece mi hanno insegnato a leggere e scrivere».
A proposito di scrivere, quali sono i suoi modelli?
«Ora recupero i classici: Dickens.
Attualissimo: basta sostituire auto a carrozze, e funziona anche oggi, perché racconta com’è la gente, perché è pieno di umanità. Ma in generale leggo più saggi e biografie che narrativa. Ed evito i maestri del thriller, forse per non confrontarmi con chi è più bravo di me».
Come commando dice di avere imparato a convivere con la paura del pericolo. Come scrittore ha paura della pagina bianca?
«All’inizio sì, mi spaventava tanto!
Avevo tante idee e non sapevo come metterle in ordine sulla pagina. Un po’ alla volta si acquisisce una tecnica, ma la paura di non sapere come partire rimane. Che è poi la paura della falsa partenza, della brutta partenza: cominciare un libro o un capitolo nel modo sbagliato, rileggere, pensare che fa schifo e buttare via tutto. Ho imparato a controllarla in modo simile alla paura che provavo come commando: a non avere paura della paura, accettarla, riconoscerne anzi i pregi. Quando hai scritto qualcosa, non temere di criticarlo: è già un risultato comunque. Scrivere in fondo è riscrivere, riscrivere, riscrivere. Non arrendersi. Lo stesso principio che mi ha tirato fuori da tante missioni impossibili nella mia prima vita, quella sotto le armi».