la Repubblica, 15 febbraio 2018
La verità di Clapton re della menzogna
ROMA È un bambino dell’asilo, ha una sorella più grande che misteriosamente si dilegua nelle Americhe prima che lui s’iscriva alle elementari. Ha 9 anni quando la mamma gli confida: «In realtà la tua vera madre è quella che hai sempre creduto fosse tua sorella, io sono tua nonna». Così Eric Clapton apprende di essere figlio di un’avventura; suo padre, un soldato canadese, aveva sedotto la sedicenne Patricia Molly in una notte del 1944. È l’inizio di un’infanzia disfunzionale, seguita da un’adolescenza tormentata e da una maturità maledetta. «A quel punto non mi fidavo più di nessuno, mi pareva che tutta la mia vita fosse una menzogna», racconta il chitarrista più famoso del rock – insieme a Jimi Hendrix – nel documentario Life in 12 bars (Vita in 12 battute), di Lili Fini Zanuck, 135 minuti più intensi e vibranti di un biopic, nelle sale il 26, 27 e 28 febbraio. Un gigante del blues bianco, oltre 130 milioni di dischi venduti, 18 Grammy, per tre volte nella Rock and Roll Hall of Fame, Clapton racconta senza veli la sua vita di rifiutato redento dalla musica, un ritratto intimo, toccante, corredato di immagini inedite. «Sapevo di essere diverso», racconta, «soffrivo di un grande senso d’inferiorità». Ha ancora i pantaloni corti quando ascolta My life is ruined di Muddy Waters. «Questa è roba per me, pensai. Quella musica alleviò istantaneamente il dolore». Il blues è musica per palati fini, non riesce a condividerlo con nessuno nella nativa Ripley, dove è considerato un eccentrico. Le cose vanno diversamente a Londra, quando incrocia Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones al Marquee Club, tempio del nuovo rock. Non lo chiamano ancora slowhand, manolenta, ma sono tutti incantanti dal suo tocco. A 18 anni già suona con i Roosters, a 19 con i leggendari Yardbirds, che nel 1964 partecipano al concerto di Natale dei Beatles all’Odeon di Hammersmith.
«Per noi erano quattro coglioni travolti dal loro stesso successo», racconta, «riuscii a familiarizzare soltanto con George Harrison».
Tutto ciò che è commerciale gli sembra insopportabile. Quando For your love degli Yardbirds sbanca le classifiche, abbandona la band e cerca asilo nel gruppo di John Mayall, un fondamentalista del blues bianco. Sono anni di grande euforia musicale in Gran Bretagna, il Brit-rock sta invadendo il mondo, persino i giganti americani come Dylan vi approdano con grande riverenza. «Era bravissimo e carismatico, nonostante il carattere introverso», racconta Mayall, «il pubblico cominciò a idolatrarlo, e questo gli dava fastidio. Andò su tutte le furie quando lesse su un muro la scritta “Clapton è Dio”». Persino il taciturno Roger Waters (Pink Floyd) si lascia prendere dall’entusiasmo: «Il suo modo di suonare la chitarra cambiò tutto. Era un rivoluzionario».
Inquieto, solitario, perennemente insoddisfatto, vorace ascoltatore di musica indiana, nel 1966 Clapton fugge di nuovo e fonda con Ginger Baker e Jack Bruce i Cream, il trio che ha fatto storia. Jimi Hendrix, che prepara l’esordio con la sua Experience, esclama: «Sono felice, finalmente ho baciato sulla bocca il fratello più bello di Londra». Entrambi strafatti, amici per la pelle, iniziano in contemporanea la loro avventura psichedelica.
Negli studi Atlantic di New York Aretha Franklin scoppia a ridere di fronte a un Clapton agghindato da figlio dei fiori, poi quando lo sente suonare implora un assolo per la sua Good to me as I am to you. Il blasonato discografico Ahmet Ertegun, dopo un mitico concerto al Fillmore West di San Francisco, sbotta: «I Cream sono più grandi di Beatles e Stones». B.B. King ringrazia pubblicamente: «Prima di lui l’America bianca non aveva mai prestato attenzione al blues». Ma il successo non è la cura; trascura la compagna Charlotte Martin, sballa con Harrison (e suona in While my guitar gently weeps, nel White album dei Beatles), sniffa con Hendrix, si azzuffa con Bruce e Baker, acquista una villa nel Surrey e aggiunge all’ossessione per la musica quella per una donna, Pattie Boyd, che incidentalmente è la compagna di Harrison, il suo migliore amico. «Sapevo che era sbagliato, ma l’attrazione era fatale», confessa. Lei sembra ricambiarlo, ma è titubante. Eric fa l’eremita, si nutre di coca e non la smette di rimuginare sulla prima volta che vide sua madre: lei torna per la prima volta dal Canada, lui va con la nonna a incontrarla al piroscafo, la vede sbarcare col marito e altri due bambini, corre ad abbracciarla, le chiede, «vuoi farmi da madre adesso?», e lei, spietata, «no, meglio lasciare le cose come stanno». Il ricorso all’eroina, «il piacere di sentirsi avvolto in quell’ovatta rosa», è quasi inevitabile considerati i tempi e lo status. Pattie è tentata ma resta con George, lui sfoga rabbia e dolore nei Blind Faith, il supergruppo con Steve Winwood che dura soltanto una (gloriosa) stagione. È allo sbando quando atterra a Miami per incidere il disco solista a nome Derek and the Dominos. Duane Allman, chitarrista e complice, ricorda: «Era per Pattie che Eric suonava tutta quella disperazione». Incide Little wing di Hendrix, ma l’amico muore due settimane dopo. «Piansi non perché se n’era andato ma perché non mi aveva portato con sé», ricorda. Da lì in poi, coca, eroina, alcol e una sfilza gloriosa di dischi come solista. Quando Pattie finalmente decide di lasciare Harrison e trasferirsi da Clapton trova l’ombra dell’uomo che aveva conosciuto tempo addietro. «All’epoca ero un tossico», ammette lui, «non mi suicidavo solo perché da morto non avrei potuto bere».
A metà anni Ottanta, in tour a Milano, conosce Lory Del Santo. «Ero cotto di lei, volevo rifarmi una vita in Italia», dice lui.
«Era uno stronzo, non sapeva quel che faceva», commenta Boyd. Forse ha ragione, è ancora uno sbandato. Conor, l’adorato figlio avuto dall’attrice italiana cade a poco più di quattro anni dalla finestra di un grattacielo di New York lasciata aperta per errore. «Lì persi davvero la fede», mormora il chitarrista. Smette di bere e prende a suonare senza sosta, giorno e notte, fino a ferirsi le dita, fin quando non gli vengono le note di Tears in Heaven, una preghiera per Conor. La redenzione, l’inizio della risalita. Pochi minuti nel film per raccontarla.
Nella sua odissea il lieto fine pare quasi una nota stonata.