la Repubblica, 15 febbraio 2018
Riparte l’inflazione Usa ma la Borsa ha meno paura
NEW YORK L’inflazione americana è di ritorno, piano piano, senza drammi ( stavolta). L’indice dei prezzi al consumo è salito dello 0,5% a gennaio e del 2,1% su base annua. È un risveglio significativo, con dettagli interessanti come l’aumento dell’ 1,7% dei prezzi dell’abbigliamento, che interrompe un ventennio di deflazione da “sconto cinese”. Un dato simile riferito all’inflazione salariale (+2,9%), venerdì 2 febbraio aveva scatenato un piccolo finimondo di vendite a Wall Street. Ieri invece i mercati hanno reagito con calmo ottimismo e gli indici hanno continuato a recuperare il terreno perduto nella scorsa settimana. Eppure il dato sull’aumento del costo della vita spinge sempre nella stessa direzione: verso un aumento dei tassi direttivi della Federal Reserve. Ma nelle ultime sedute gli investitori sembrano meno spaventati di una settimana fa dalle incognite sulla politica monetaria. Anche se i diversi mercati hanno comportamenti talvolta divergenti, a compartimenti stagni. Ieri per esempio l’ottimismo del listino azionario non ha affatto contagiato il mercato valutario, dove il dollaro ha perso terreno e l’euro è tornato a quota 1,24.
Sull’indebolimento del dollaro sembrano aver pesato il nuovo aumento del deficit commerciale americano a 566 miliardi di dollari, insieme con le proiezioni su un boom del disavanzo pubblico in seguito alla finanziaria di Donald Trump ( il rapporto deficit/ Pil dovrebbe scivolare al 5%).
In questo quadro contraddittorio s’inserisce anche la frenata dei consumi a gennaio: in quel mese gli americani hanno ridotto dello 0,3% le spese nella grande distribuzione e nella ristorazione. Un altro dato potenzialmente inquietante è il nuovo aumento dei debiti delle famiglie che hanno raggiunto il 67% del Pil (non è comunque un livello record: nel 2009 i debiti delle famiglie pesavano l’87% del Pil Usa).
Tutto questo sembra confermare quindi il quadro di un’economia americana che sta accelerando la crescita, con benefici che finalmente raggiungono anche le fasce basse del mercato del lavoro, ma ancora ben lontana da un surriscaldamento pericoloso. Le tensioni inflazionistiche restano moderate rispetto ad altre epoche storiche. La politica monetaria prevedibilmente continuerà il suo percorso lungo la traiettoria tracciata da Janet Yellen. La prossima riunione della Fed, che si terrà il 20 e 21 marzo, sarà la prima dell’era Jerome Powell, il nuovo presidente nominato da Trump e insediatosi una settimana fa. La Banca centrale americana dovrebbe annunciare in quella occasione un nuovo rialzo dei suoi tassi direttivi per un quarto di punto percentuale; a cui dovrebbero seguirne altri tre.
I prezzi per categoria nel corso dell’anno. Parlare di stretta monetaria sarebbe esagerato visto che i tassi direttivi della Fed attualmente a quota 1,5% equivalgono in termini reali (al netto dell’inflazione) ad un rendimento nullo o leggermente negativo. È dunque appena agli inizi il ritorno alla normalità nei tassi d’interesse, e le Borse ancora godono di una lunga anomalia favorevole: i comportamenti degli investitori sono condizionati a favore delle azioni finché i titoli a reddito fisso offrono rendimenti così modesti (e prospettive di perdite in conto capitale in una situazione di tassi gradualmente ascendenti).
Sull’inflazione futura resta da vedere quale impatto potrà avere il protezionismo dell’Amministrazione Trump. Il presidente è tornato a parlare di misure contro la concorrenza sleale, ha evocato una “tassa sulla reciprocità” per punire quei Paesi che non aprono i loro mercati ai prodotti americani. Aveva inaugurato il 2018 con due dazi contro le importazioni di pannelli solari cinesi e lavatrici sudcoreane. Le prossime mosse potrebbero riguardare due settori tradizionalmente esposti al dumping della Cina, acciaio e alluminio. Se il 2018 sarà l’anno in cui la nuova politica commerciale americana comincerà a mordere, un impatto dovrebbe esserci sulla dinamica dei prezzi. Dazi e altre barriere tendono a far rincarare i prodotti sul mercato interno, segnando la fine di un’altra tendenza ventennale, quella deflazione dei prezzi provocata dalla globalizzazione.