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 2018  febbraio 15 Giovedì calendario

«Io, stacanovista della visita da dieci mutuati all’ora»

TORINO Trenta-quaranta pazienti in quattro ore. Paolo Gambetta è un medico di medicina generale da dieci pazienti all’ora, una media di sei minuti a testa. Sorride: «Posso definirmi un dottore “megamassimalista?». Nello studio al primo piano di un palazzo popolare nel cuore della Porta Palazzo multietnica, primo quartiere ad aver sperimentato l’impatto dell’arrivo degli stranieri a Torino, accende il computer e mostra l’interminabile elenco dei suoi assistiti, 2118 persone ad oggi, 2125 qualche giorno fa. Quattrocento sono italiani, tutti gli altri extracomunitari in regola con il permesso di soggiorno.
Cinquecento sono marocchini.
Poi, nell’ordine, egiziani, senegalesi, nigeriani, rumeni, cinesi. Qualcuno dal Bangladesh: «Ho fatto il conto, i miei pazienti arrivano da 54 Paesi diversi. Mi sto facendo una cultura, lingua, patologie che caratterizzano le diverse etnie, abitudini. Sto imparando molto». In realtà lo studio Gambetta-Carbonato, il collega che divide lo spazio con lui, è un esempio record in città.
In due seguono quattromila pazienti.
Dottor Gambetta, quanti anni ha?
«Ho 65 anni, potrei essere in pensione ma questo punto continuo fino a 68. E sa una cosa?
Nella nostra équipe di area, dove siamo venti medici, la più giovane sta per compiere cinquant’anni.
Entro cinque anni la metà di noi sarà a casa. Fare il medico non è un mestiere per giovani».
Anche in Piemonte l’80 per cento dei medici andrà in pensione fra il 2016 e il 2032.
Quali scenari immagina?
«Necessariamente dovrà cambiare il modello di assistenza. In caso contrario si dovrà arrivare a importare i medici come capita in altri paesi europei».
I suoi numeri sono cresciuti perché altri colleghi in zona sono andati in pensione?
«Un collega è andato in pensione, ed è possibile che alcuni suoi pazienti abbiano chiesto di passare al nostro studio, ma con gli stranieri funziona molto il passa parola. Si sparge la voce nella comunità di appartenenza e non è soltanto una storia di quartiere. Da me arrivano nigeriani che stanno a Mirafiori, dall’altra parte di Torino».
Le pare compatibile con la professione di medico avere una media di sei minuti per paziente?
«È solo una media. C’è chi viene per una ricetta e allora bastano pochi minuti, ma se ho una visita da fare dedico più tempo. Sì, direi che è possibile, e io non sono e non mi sento Superman. Ricevo tre-quattro ore al giorno dal lunedì al venerdì ma finché in sala d’attesa c’è qualcuno non me ne vado. Ma questi sono numeri possibili proprio perché i tre-quarti dei miei pazienti sono extracomunitari. In generale sono più giovani, e quindi si ammalano meno. Di regola, poi, gli stranieri sono meno impazienti e meno esigenti degli italiani».
Sarebbe diverso se avesse 2118 italiani?
«Sarebbe insostenibile. Non ce la farei».
Ora prescrive molto e visita poco?
«Da me gli stranieri vengono, ma le situazioni di cronicità sono più rare. Con molti ci confrontiamo via WhatsApp. Così risparmiamo tempo. Chiedono consigli, mandano messaggi vocali. Anche in arabo. Quelli non li capisco e rispondo che devono fare uno sforzo usando l’taliano».
Ha dato il numero di cellulare a tutti?
«A chi me lo chiede. Mi chiamano anche la sera».
Da quanto tempo ha tutti questi pazienti?
«Un anno fa ne avevo circa 900 persone. Poi c’è stata l’impennata. Ma da un po’ i numeri sono stabili, qualcuno lascia, altri arrivano».
Non può dire di no?
«Quella del medico è una scelta del paziente. In ogni caso non mi sentirei di rifiutare, anche perché ho ritrovato la passione per il mio lavoro. Si sta rivelando una bella esperienza».
Non ci dica che riesce anche ad andare a fare visite a domicilio?
«Poche, ma se serve vado».
Quanto guadagna?
«Seimila euro netti».