La Stampa, 15 febbraio 2018
La decadenza del grissino nelle bustine plastificate
Immaginate un principe triste di uno staterello di montagna che si ingrandisce di anno in anno, grazie a guerre e alleanze, e che accumula ricchezza incassando odiose gabelle sul sale. Pensate a questo ragazzino macilento e debole di stomaco che, a meno di dieci anni, alla morte del padre, è già insignito del titolo ducale ma che è tenuto sotto scacco da quell’arpia della madre, che amministra il potere in combutta con la Francia e che trama per allontanarlo dal trono con un matrimonio combinato. Sembrano gli ingredienti di un romanzo, invece sono quelli di una ricetta di sola acqua, farina, lievito e sale. Il bambino inappetente è Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, per cui il medico di corte, d’accordo con il fornaio, fece preparare un impasto di pane sottile e allungato, arrotolato con le mani, «robatà», alla moda delle piccole «baguette» piemontesi, le «ghërse». Nacquero i grissini. Forse erano già diffusi, ma una bella favola non si cura delle date e racconta piuttosto che, con quel pane digeribile e senza mollica, lo stomaco del sovrano si ristabilì. Il Duca riprese salute e potere, arginò le pretese francesi e conquistò astutamente la prima corona reale per la propria casata. E questa è storia, storia d’Italia. Le bustine plastificate di grissini a lunga conservazione, spesso pieni di grassi artificiali, appoggiate sulle tavole di ristoranti anche di pregio, hanno invece il sapore amaro e indigesto di una favola senza lieto fine: c’est la décadence…
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