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 2018  febbraio 15 Giovedì calendario

«Non so se in Italia ci sarà ancora una sinistra La tv? Ormai vedo solo la Roma». Intervista a Sergio Zavoli

ROMA Sergio Zavoli, 94 anni, dopo quattro legislature lascia il Parlamento. Oggi al Senato introdurrà un convegno sulla felicità. Ha fatto la storia della televisione (“Processo alla tappa”, “La Notte della Repubblica”), 52 libri, tra cui il celebre Socialista di Dio.
Cosa guarda in tv?
«Guardo la Roma».
Non più la politica?
«Sì anche, ma non mi faccia fare elenchi».
Com’è cambiato il Parlamento in questi 17 anni?
«È cresciuto un sentire più laico della politica, si può credere alla propria appartenenza ma senza fedeltà assoluta. Ma è anche cresciuto il trasformismo: sono impressionato da tutti i cambi di casacca».
Per chi voterà?
«Il mio partito è il Pd».
Non è preoccupato per la crisi della sinistra?
«Sì, un’Italia senza sinistra dopotutto sarebbe come un’Italia senza la destra, con tanti saluti alla democrazia».
Come spiega questa difficoltà?
«Quando cadde l’Ulivo cominciò anche il declino della sinistra italiana: il capolavoro di Bertinotti».
L’astensionismo rischia di essere il primo partito.
«Credo che la scissione abbia contribuito al disorientamento».
In che modo peserà?
«È stata un errore. Bersani è un leader che parla per metafore, ma un politico deve parlare il linguaggio del realismo, farsi capire».
Lei alle primarie votò Cuperlo, non Renzi.
«Gianni è colto, gentile, dispiace che non si candidi».
Renzi ora è in difficoltà?
«Fece molto bene all’inizio.
Ricorda? La Germania ci incalzava. Renzi ha avviato un percorso di crescita, di riforme.
Temo però che il 40% alle Europee non sia stato la sua fortuna».
In che senso?
«Non si è reso conto che stava minando lui stesso la strada che stava percorrendo intestandosi, da un punto di vista psicologico, il referendum».
Il mite Gentiloni adesso è visto come il salvatore della patria.
«È stato bravo, ma le vorrei fare notare che è di una mitezza non arrendevole».
La destra ora è favorita?
«Temo che finirà preda di tentazioni populiste. È stata costretta a una contaminazione con Salvini, per una questione numerica, poi però bisognerà governare. I talk show hanno finito per favorire Salvini. Ha occupato la tv».
Cosa pensa della vicenda dei rimborsi M5S?
«Non la sta seguendo».
Come mai?
«Non è il mio genere».
Per i sondaggi restano il primo partito. È stupito?
«Mi ricordano l’Uomo qualunque, ma là a un certo punto c’era un colosso come la Dc, che li stoppò».
I fatti di Macerata ci dicono che siamo diventati un Paese razzista?
«Non credo. Restiamo un popolo con una natura bonaria.
L’immigrazione è stata largamente positiva. Mi ricordo quel che mi disse il cardinale Tonini quando era ancora prete: “Sergio, fra una decina di anni avremo bisogno di qualche milione di migranti per tenere in piedi la nostra economia”».
Questa Italia le piace?
«Si è involgarita. Per fortuna Alberto Angela, che ormai è più bravo del padre, poi ci mostra il paese più bello del mondo».
Qual è l’errore più grande commesso dalla nostra classe dirigente?
«Di avere tenuto la gioventù per almeno tre generazioni in una sorta di irrilevanza sociale, privandola di ogni possibile desiderio».
Che ricordi ha di Fellini giovane?
«Lui voleva fare del cinema, io la radio. Federico mi rimproverò: “Ma così rinunci alla tua vocazione narrativa”».
L’inchiesta di cui va più fiero?
«Clausura. Venne venduta in numerosi paesi stranieri. Per la prima volta alla radio parlavano le suore. Ma più delle parole colpivano i loro silenzi».
Lei poi diventa famoso grazie al “Processo alla tappa”.«Facevamo ascolti mirabolanti».
Chi preferiva tra Coppi e Bartali?
«Coppi era nato per vincere; Bartali per non perdere. Poi c’era Magni che era nato per vincere e non perdere indifferentemente. I miei preferiti però erano i gregari. Che impararono a parlare in tv».
Sono 40 anni dall’omicidio Moro. Poteva essere salvato?
«Sì, ma la sua politica di compromesso storico, che avrebbe stabilizzato il Paese, aveva troppi avversari. Non piaceva né agli americani, né all’Unione Sovietica».
Nella “Notte della Repubblica” lei fece parlare per la prima volta tutti i terroristi.
«Ricordo le lacrime di Bonisoli, uno dei brigatisti di via Fani, sopraffatto dalla vergogna perché nel frattempo era diventato padre. Alberto Franceschini mi disse che per gioco, per sfida, nei primi anni Settanta a Roma, aveva voluto sfiorare Andreotti per strada: perché voleva toccare il potere».
Cosa farà adesso?
«Torno al mio mestiere».
Che consigli darebbe a un giovane che vuol fare il giornalista?
«Di essere profondamente curioso. Ma anche riguardoso verso la verità, perché la verità è spesso ambigua, incerta, ritrattabile».