la Repubblica, 15 febbraio 2018
Il paradiso del sultano nella Nato
Ieri e oggi i ministri della Difesa della Nato si incontrano a Bruxelles per discutere delle difficili relazioni con la Russia e riformare la struttura di comando dell’Alleanza. Ma c’è un problema più urgente di cui dovrebbero occuparsi: la crescente aggressività della Turchia. Per una volta, la Nato farebbe bene a guardare nel cortile di casa.
La Turchia è un membro dell’Alleanza atlantica. Ma, a guardare le sue azioni, non si direbbe. Negli ultimi giorni la marina turca ha bloccato una nave dell’Eni per imperdire le perforazioni al largo di Cipro; una corvetta turca ha speronato una motovedette greca che lavorava per l’agenzia Ue Frontex; Ankara ha annunciato che installerà una postazione militare su un isolotto conteso con Atene. Nelle ultime settimane le forze armate turche sono entrate in Siria per attaccare le milizie curde, alleate degli occidentali nella lotta all’Isis, facendo quasi 1.500 tra morti, feriti e prigionieri.
È difficile immaginare come la Nato possa preoccuparsi dell’operato russo in Ucraina e continuare a ignorare quello che fa la Turchia contro gli interessi della Ue e dell’Occidente. Anche l’Unione europea, come ha fatto giustamente rilevare su queste pagine Lucio Caracciolo, non può non raccogliere la sfida che arriva da Erdogan. Dopo gli incidenti che hanno coinvolto l’Italia, la Grecia e Cipro, tutti i vertici europei hanno espresso critiche alla Turchia.
L’alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini, i presidenti della Commissione, Juncker, del Consiglio europeo, Tusk, e del Parlamento europeo, Tajani, hanno invitato al rispetto delle norme del diritto internazionale. Ma questi appelli non bastano. Tanto che Erdogan si è permesso di rispondere, con la solita strafottenza, che gli europei «stanno facendo male i conti e si stanno comportando in maniera impertinente». «Distruggeremo i vostri piani» minaccia. Ma l’Europa è davvero impotente di fronte all’arroganza del Sultano? In realtà, la Turchia ha già pagato e sta pagando un prezzo alto per la condotta di Erdogan. Il processo di adesione alla Ue è di fatto congelato.
E questa era una priorità assoluta per la classe dirigente ed europeizzata del Paese e per i suoi progetti di crescita economica. Nel suo ultimo tour europeo, Erdogan se lo è sentito dire a chiare lettere in tutte le capitali, Roma compresa: la svolta autoritaria, la continua violazione dei diritti umani hanno compromesso il rapporto. I fondi Ue pre-adesione, per 2 miliardi nel periodo 2018-2020, sono in parte già bloccati; gli investimenti europei nell’economia turca languono; il progetto di unione doganale è fermo; la liberalizzazione dei visti per l’ingresso dei cittadini turchi in Europa resta nei cassetti. Possono non sembrare misure appariscenti, ma fanno male. Certo, Ankara può sempre minacciare di riaprire i rubinetti al flusso dei rifugiati siriani verso l’Europa. Ma ha interesse a far bene i propri conti. La Ue deve ancora versare tre miliardi di aiuti ai profughi e alle Ong che li assistono in Anatolia. Se la Turchia riaprisse le frontiere, Bruxelles potrebbe dirottare quei fondi verso la Grecia.
La insistente richiesta di Erdogan di un vertice con i capi di governo europei non ha finora trovato seguito. A marzo si terrà un incontro trilaterale tra il leader turco, Juncker e Tusk, e si prevede che sarà incandescente. A Bruxelles molti interpretano l’aggressività del Sultano come una risposta alle porte che si è visto sbattere in faccia. Per questo la reazione europea è stata finora tutto sommato moderata, nella speranza di una de-escalation. Ma se la distensione non dovesse arrivare, le porte continueranno a restare sbarrate. E la Turchia si troverà sempre più isolata.