La Stampa, 15 febbraio 2018
L’arte di ribellarsi
Qui, qualche tempo fa, ci chiedevamo a chi precisamente dovesse rendere giustizia il processo per il suicidio assistito di dj Fabo. Ce lo chiedevamo perché dj Fabo desiderava farla finita per scampare a sofferenze a lui insopportabili, e la madre e la fidanzata lo avevano assecondato non in un inno alla morte ma in un inno alla libertà, quella di preferire le tenebre all’irrimediabile strazio. Chi era la vittima di questa storia? Chi era stato offeso e meritava risarcimento? E perché valutare una punizione a Marco Cappato, leader dell’associazione Luca Coscioni, costellazione radicale, se una vittima non c’è? Ora abbiamo capito a chi doveva rendere giustizia. Ieri la Corte d’assise ha sospeso il processo per chiedere alla Corte costituzionale se sia ragionevole giudicare un uomo, Cappato, che ne ha aiutato un altro, dj Fabo, a godere del diritto di rifiutare le cure in caso di malattia irreversibile o terminale, e del diritto al rispetto della persona, che comprenderebbe una fine dignitosa. Ora tocca alla Corte, ma intanto abbiamo capito a chi si doveva rendere giustizia: a noi. Alla libertà di disporre della nostra vita se crediamo ci appartenga, e di non disporne se crediamo appartenga a Dio. E fin qui il processo è già servito a rendere giustizia a un’idea: quando si ritiene che la legge e la morale siano in conflitto, quando si ritiene che la legge non sia all’altezza della morale, non si scende in piazza mascherati sfasciando vetrine e bancomat, si fa molto di più: come Cappato si mette sul piatto la propria libertà per ottenere la libertà di tutti.