Corriere della Sera, 15 febbraio 2018
Da Etruria alle maxi truffe, intercettazioni di 37 Procure finite nei pc della ditta privata
Milano Il punto non è che, tra le migliaia di intercettazioni finite dove non avrebbero dovuto finire, e cioè negli uffici della società privata Area che le svolgevano per conto dei pm, ora si scopra vi fossero pure quelle tra il padre di Maria Elena Boschi e il figlio e gli avvocati dell’inchiesta della Procura di Arezzo su Banca Etruria, o quelle della Procura di Roma sull’assassinio nel 2014 di Silvio Fanella, il «cassiere» di Gennaro Mobkel (condannato per la maxi truffa Fastweb-Telecom Sparkle). Il tema vero è quello, più generale, posto dalla scelta della Procura di Milano di chiedere al gip Anna Calabi di rinviare a giudizio una delle 4 maggiori società private di intercettazioni (e il suo socio unico Andrea Franco Formenti) per il reato di «accesso abusivo a sistema informatico», con l’accusa di aver indebitamente «scaricato» a distanza dai server delle Procure, e conservato su 12 postazioni in azienda a Vizzola Ticino (dove sono state trovate) migliaia di spezzoni di fonìe, sms, numeri e nomi di intercettati nel 2009-2016 da 37 Procure (da Roma a Palermo, da Napoli a Reggio Calabria, da Torino a Catania), che al pm Piero Basilone hanno risposto di non aver mai autorizzato lo «scarico» in manutenzione.
Solo che la società di Vizzola Ticino ribatte che quel reato non può esistere perché Area, come tutte le altre aziende concorrenti, deterrebbe legittimamente i privilegi di «amministratore dei sistemi informatici» concessi in comodato alle Procure e di cui rimane proprietaria: infatti le Procure – rimarcano i professori Mario Zanchetti, Carlo Enrico Paliero e Fabio Ambrosetti – non hanno mai proceduto alla cosiddetta «presa in carico» dei sistemi forniti dalle ditte, né indicato un «amministratore di sistema» diverso dal fornitore, e così hanno di fatto nominato Area «amministratore del sistema» oggetto dei contratti.
L’azienda, che oltre al consulente ingegner Alessandro Mistò ha ingaggiato la società di consulenza Kpmg, sostiene che il materiale «scaricato» (e non cancellato) fosse in larga parte non intelleggibile perché «avariato» o spezzettato, e comunque rimarca che nemmeno il pm contesti alcuna cessione a terzi delle intercettazioni «scaricate». Consolazione però piuttosto relativa, perché, se gli accessi ai server di Area in Procura restano comunque tracciabili a posteriori perché «loggati» sui server in Procura, una volta che le intercettazioni siano però state «scaricate» durante la manutenzione, e risiedano nei server della società, per la GdF e il consulente del pm Giuseppe Dezzani non ci sarebbe più modo di verificare, cioè di attestare in positivo o di escludere in negativo, che da lì siano state esportate, o consegnate o lette ad esterni.
Per Area, che con 150 dipendenti già lamenta di stare perdendo «il 20% del fatturato», lo spettro è la legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai vertici nell’interesse aziendale: che qui non c’è, ribatte la società, la quale dagli ipotizzati accessi abusivi non avrebbe tratto alcun vantaggio ma anzi solo danni alla propria immagine. La Procura, invece, identifica l’«interesse» di Area nell’accreditarsi presso gli uffici giudiziari come ditta in grado di fornire una manutenzione che recuperasse persino l’apparente perdita di una fonìa.
Intanto, in attesa che si concretizzino i dichiarati (un anno fa) impegni del ministero della Giustizia ad acquistare 36 nuovi server «statali» per iniziare a sostituire nelle Procure i server «privati» delle ditte, a formare decine di «amministratori di sistema» interni all’amministrazione, e a creare un albo dei fornitori, le Procure vanno in ordine sparso. Roma si è data un «amministratore di sistema» interno, e impone alle ditte una specifica richiesta per motivare l’eventuale bisogno di «scaricare» un dato in manutenzione. A Reggio Calabria invece proprio Area continua a gestire il registro di tutte le intercettazioni. Milano, al contrario, l’ha bandìta al pari di un’altra dozzina di società, estromesse sulla base di parametri generali (contenziosi fiscali o previdenziali, precedenti penali dei dipendenti) comparati con una autocertificazione: metodo un po’ artigianale, che ha già indotto le ditte escluse a fare subito fatto ricorso al Tar.