Corriere della Sera, 15 febbraio 2018
Il senso del cognome per il giovane De Luca: cocco di papà? Che noia
«Vorrei che tutti i salernitani dicessero: “Vicienzo m’è pate a mme!”», invocò anni fa l’allora sindaco-podestà Vincenzo De Luca, citando la celeberrima battuta di Peppiniello in Miseria e nobiltà. Detto fatto, da allora in poi a ogni comizio spuntava uno striscione: «Vicienzo m’è pate a mme!»
E che siano in tanti, a Salerno, a venerare come un padre l’attuale governatore della Campania è difficile da contestare. Basti ricordare che non potendo fare sia il governatore della Campania sia il sindaco della città dell’antica e celeberrima «scuola medica», alle comunali 2016 puntò come sindaco su un figlioccio, Vincenzo Napoli. E quello prese il 71%. Rifilando quasi 60 punti di distacco alle destre. Umiliante.
L’unico che cerca in qualche modo di smarcarsi più che può dalla figura paterna proclamando la sua autonomia chi è? Il figlio Piero. Provate a fargli qualche domanda. «Suo padre…» «Parliamo del programma». «Ma suo padre…» «Parliamo del programma». «Ma suo padre…» «Parliamo del programma». E via così: «Perché mai dovrei parlare di mio padre? Che c’entra? Mica mi ha scelto lui, come candidato al maggioritario qui e al proporzionale a Caserta. Sono stati gli amici del Partito democratico, a chiedermi la disponibilità a mettermi a disposizione del progetto». Vabbè, ma è stato papà a imporre la candidatura, no? «Già questa è una domanda in malafede. Che noia… Io sono qui con una mia storia, un mio percorso, una mia indipendenza…».
E sventaglia il curriculum: «Mi sono laureato in legge alla Federico II. Ho lavorato dieci anni in Europa specializzandomi all’Institut d’Études Européennes dell’Université Libre de Bruxelles. Ho fatto il dottorato. Mi sono trasferito in Lussemburgo come Referendario presso la Corte di giustizia della Ue. Ho numerose pubblicazioni… Un paio di libri… Perché parlare di mio padre? Insisto: voglio mettere a disposizione le mie capacità, la mia esperienza, la mia professionalità». In più, aggiunge, parla bene il francese e l’inglese. «E l’italiano. Cosa non scontata, di questi tempi».
E qual è il progetto? «Portare avanti il modello-Salerno. Poche chiacchiere e molti fatti». Modello papà. «Cosa ha imparato da suo padre?», gli ha chiesto il Mattino. «Innanzitutto penso, e lo dico senza imbarazzo, che il governatore De Luca sia giudicato a sinistra e a destra come il migliore amministratore pubblico che abbiamo oggi in Italia». Bum! «Lo rivendico con grande orgoglio, come campano e come italiano».
Purché non lo trattino da cocco di papà. Uffa, i giornalisti! Ricordate la leggendaria sfuriata del padre contro i giornalisti sul canale di «Lira Tv», che per lo spirito adorante verso il sindaco era chiamata «Al Ja-Lira»? «Confermo la profonda e geniale intuizione che ho avuto quando ho detto che anziché comprare certi giornali è meglio comprare una zeppola. A Napoli una “frolla”, “una riccia”, una “sfogliata”, un babà…». Lui no, non arriva a tanto coi cronisti. Ma non ne può più, si è sfogato con Simona Brandolini del Corriere del Mezzogiorno, di questa storia del raccomandato: «Sono offeso e indignato in quanto italiano dal fatto che ancora oggi ci siano commentatori che continuano a portare avanti una polemica volgare e superficiale».
«Vicienzo ‘o funtaniere», come lo chiamano dai tempi in cui da sindaco si mise in testa di aggiustare tutte le fontane abbandonate di Salerno e di farne di nuove, aveva già messo le polemiche in preventivo. Fin dal 2014, quando girava voce che il figlio minore, Roberto, commercialista, sarebbe stato piazzato come assessore al Comune di Salerno: «I miei figli sono la cosa più importante della mia vita. Siamo in un paese di ipocriti e di farisei. Nel quale un ragazzo viene massacrato pur di battere il padre».
Aggiunse: «Mi auguro che i miei figli non abbiano la malattia della politica. Sto resistendo disperatamente perché si liberino di questa malattia. Se decideranno di farla la faranno senza dover chiedere il permesso a nessuno, a testa alta». «Resistenza disperata?», sorrisero gli avversari. Giusto il tempo che arrivassero le elezioni ed eccolo lì, il giovane Roberto: assessore al Bilancio e allo Sviluppo nel municipio in pugno al padre (pura coincidenza) dal lontano 1993. Un quarto di secolo. Commento del leader locale di Forza Italia: «De Luca è come Saddam Hussein con i suoi Uday e Qusayy». E Roberto Saviano: «Come Caligola, che nominò senatore il suo cavallo preferito».
C’è poi da stupirsi se la scelta di candidare ora Piero alle politiche ha sollevato un polverone? Non è forse il solito, tradizionale, insopportabile familismo meridionale? «Il familismo non c’entra. Familista è ereditare senza meriti un partito o un blog. Io invece mi sono fatto da solo. Andando a studiare e lavorare all’estero. Mantenendomi da solo. Su questo ho il diritto di essere giudicato, non sulla mia carta d’identità».
E spiega che l’altra sera, esasperato, ha proposto ai suoi elettori: «Se volete, per chiudere questo tormentone, cambiatemi il nome. Invece che Piero De Luca potrei chiamarmi Luca del Piero».